Un ristoratore pulisce il marciapiede davanti al suo ristorante. Siamo in via Guido D'Arezzo, elegante strada residenziale che collega Pagano con Conciliazione, nel centro di Milano. Sui muri accanto al suo locale gli mostro alcune scritte: “No Expo”, con la “A” cerchiata simbolo degli anarchici. Sorride. “Sono qui dall'anno scorso?”, chiedo. “Sì sì”, risponde, continuando a lavorare.
A un anno di distanza dall'Expo 2015, le uniche tracce ben visibili in città rischiano di rimanere quelle scritte fatte con vernice spray. Simili a sbiadite cicatrici lasciate dalla manifestazione che ha letteralmente messo a ferro e fuoco il centro di Milano. Era il primo maggio 2015. Nel sito espositivo a Rho-Pero, alle porte di Milano, il mondo politico italiano si dava appuntamento per autocelebrarsi: era riuscito a portare a termine un'impresa giudicata da molti impossibile – terminare in tempo i lavori, cosa che non si capisce perché da noi debba essere considerata una sfida epica – e voleva ostentare al mondo come l'Italia, unita, ce la potesse fare. Al di là degli scandali, degli arresti, delle infiltrazioni mafiose – 95 le interdittive emesse dalla prefettura -, della “cupola degli appalti” formata da persone che, come in tutte le opere italiche a molti zeri, avevano cercato di allungare le mani sui soldi.
All'Expo si è arrivati con molte cose ancora da completare
La retorica del “ce l'abbiamo fatta” è stata in realtà subito smontata: dalla pioggia che cadeva in alcuni padiglioni, dai pezzi di padiglioni stessi cascati sui visitatori, dai problemi ai tornelli, da tante piccole cose che non hanno funzionato proprio da subito, come ad esempio la sede istituzionale della Lombardia, chiusa dal governatore Roberto Maroni e riaperta a un mese dall'inizio dell'Esposizione. Insomma: il traguardo è stato tagliato quando la macchina dell'Expo era ancora in pieno rodaggio.
In ogni caso mentre la politica si autoincensava, il mondo dell'antagonismo, dei No Expo, di un altro modello di politiche sull'alimentazione che non prevede multinazionali come sponsor, cercava di far sentire la propria voce. Attraverso un corteo che, partito pacifico, a un certo punto, come seguendo un copione probabilmente già scritto, si è infiammato: vetrine distrutte, muri imbrattati, auto incendiate, fioriere usate come barricate, sassi e fumogeni contro polizia e carabinieri. E dall'altra parte gas lacrimogeni, manganellate, cariche, arresti. C'erano Alessio Viscardi e Sacha Biazzo, per Fanpage.it, a documentare sul campo quella che è stata una vera e propria guerriglia urbana. Io seguivo gli eventi al pc, ma dalla mia finestra respiravo l'odore acre dei lacrimogeni, sentivo sirene urlare ininterrottamente e spezzare un silenzio per certi versi irreale.
Al termine di quella lunga giornata, di quel primo maggio dell'anno scorso, feci una passeggiata per le eleganti vie del centro violentate da pochi estremisti che avevano deciso di calcare la mano e giocare alla guerra. L'impressione era di addentrarsi nel ventre di una Milano ferita, che è stata però capace fin da subito di rimettersi in sesto da sola.
A un anno di distanza Milano è tornata alla sua vita di tutti i giorni
A un anno di distanza, Milano è ripiombata nella sua vita normale. L'Expo Gate adesso ospita i punti informativi della Triennale del design. Il sito di Rho-Pero è in lenta dismissione, ci faranno eventi “spot” ma si attende ancora che prenda il via quel “dopo Expo” sul quale nonostante i progetti del governo (lo “Human Technopole”) si addensano nebbie. Ci sono le elezioni comunali alle porte, Expo resta nei discorsi solo come argomento da usare a proprio favore o da sbandierare come “macchia” da parte di questa o quest'altra parte politica. A testimonianza che una narrazione univoca dell'evento ancora manca. E forse non potrà mai esserci. D'altronde, per conoscere i costi e i bilanci bisognerà aspettare la fine di giugno. E anche sull'indotto – che giustamente è forse la voce più importante su cui misurare un grande evento – esistono stime contrastanti, alcune fatte anni prima dell'evento, altre successive. Che restano però stime, e si scontrano in molti casi con le piccole associazioni di commercianti del centro, che parlano di un crollo degli affari dei propri associati nei sei mesi dell'Expo. Stime da una parte, registratori di cassa vuoti dall'altra.
I No Expo sono scomparsi dopo il primo maggio 2015
Per quanto riguarda i No Expo, invece, di loro non si è più sentito parlare dopo il primo maggio dell'anno scorso. Escludendo le vicende giudiziarie – le condanne per chi è stato arrestato in flagranza, i fermi di novembre 2015, il processo con rito abbreviato da poco iniziato, la mancata estradizione di anarchici greci individuati come presunti responsabili delle devastazioni –, è calato il silenzio. Su di loro e sulle ragioni (condivisibili o meno) per opporsi a tutto ciò che Expo a loro dire rappresentava: contratti di lavoro iniqui, sfruttamento del lavoro volontario, licenziamenti arbitrari, un modello di sviluppo – alimentare e in senso lato – che parlava di sostenibilità, ma lo faceva a braccetto con le multinazionali, che non sono esattamente il modello di aziende interessate a salvare il mondo, almeno nell'immaginario collettivo. La cosa curiosa è che, come scriveva il sito "Milano in movimento" (vicino agli antagonisti), l'oblio è figlio proprio delle devastazioni del primo maggio. Volevano fare rumore: ne hanno fatto troppo, fino a rendere sordo il resto del mondo rispetto alle loro istanze:
"…Anni di lavoro sui contenuti, di condivisione e di lotte oggi sono stati letteralmente spazzati via dalla scena pubblica, e se la stampa e la comunicazione mainstream hanno gioco facile a far vedere colonne di fumo nero che si alzano nel cielo della città e roghi di auto e negozi, e vetrine tirate giù, beh, qualcuno ‘sto lavoro di demonizzazione glielo ha reso davvero facile, e non abbiamo davvero niente da guadagnare dal totale isolamento nel quale ci ritroveremo, da domani, a fare politica nella nostra città" (Milano in movimento, 1 maggio 2015).
E allora: cosa resta di Expo e dei No Expo un anno dopo? Me lo chiedo mentre osservo il ristoratore che, in via Guido d'Arezzo, continua a spazzare il marciapiedi di fronte al suo locale. Adesso, come un anno fa. Sorridendo davanti alle scritte degli anarchici: forse, per lui, l'unica differenza tangibile tra il pre e il post Expo 2015.