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Omicidio Lidia Macchi, dopo la riesumazione isolato un capello: al via le analisi del Dna

Nel corso della riesumazione del corpo di Lidia Macchi, giovane studentessa uccisa nei pressi di Varese 29 anni fa, gli inquirenti hanno isolato un capello. Dalla sua analisi si spera di risalire all’uomo che la uccise con 29 coltellate. Per il delitto resta in carcere un ex compagno di liceo della ragazza, arrestato lo scorso gennaio.
A cura di Francesco Loiacono
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Le speranze di trovare l'assassino di Lidia Macchi, la giovane studentessa di Varese uccisa nei boschi di Cittiglio nel gennaio del 1987, sono legate a un capello. Si tratta dell'unica traccia che, secondo quanto riportato dal Corriere della sera, è stata rinvenuta dopo la riesumazione del cadavere di Lidia, avvenuta lo scorso 22 marzo. Una traccia esile: perché, a 29 anni dal delitto, il corpo di Lidia giaceva in una bara ricoperta da una ventina di centimetri d'acqua, entrata a causa di un difetto nella zincatura della cassa o per via dell'azione naturale del terreno.

Le analisi sul reperto biologico saranno adesso affidate al team guidato dall'anatomopatologa Cristina Cattaneo, che potrebbe lavorare anche per sei mesi sul capello. Si dovrà capirne l'appartenenza, innanzitutto. Potrebbe essere di una persona "esterna" all'omicidio, magari a chi ha seppellito la giovane. Oppure, ed è quello in cui confida l'accusa, potrebbe contenere tracce di Dna dell'unico indiziato per il delitto, S.B., il 49enne ex compagno di liceo di Lidia che dallo scorso gennaio si trova in carcere a San Vittore ma che continua a professare la sua innocenza. Il 49enne faceva parte della cerchia di Comunione e liberazione frequentata dalla vittima e ne era innamorato. Al momento è in carcere perché incastrato da una lettera anonima con riferimenti espliciti all'assassinio di Lidia, inviata ai genitori della ragazza il giorno dei funerali e che, grazie alla testimonianza di Patrizia Bianchi, amica della ragazza e innamorata dell'uomo, è stata attribuita proprio al presunto assassino.

Indagini anche sull'arma del delitto

Una lettera è però forse troppo poco per risolvere un "cold case" di 29 anni fa. E allora ecco che gli inquirenti confidano anche nella ricerca dell'arma del delitto: sempre partendo da una testimonianza di Patrizia Bianchi, negli scorsi giorni militari dell'esercito hanno perlustrato un giardino vicino Varese, trovandovi sepolti nel terreno alcuni coltelli. Uno potrebbe essere quello con cui il 49enne ha colpito per 29 volte Lidia dopo averla violentata: anche in questo caso, però, le speranze di ritrovare tracce utili dopo 29 anni sono molto flebili.

Il tempo: un fattore chiave in questa inchiesta già passata di mano una volta e caratterizzata da troppe persone che non ricordano o che non hanno voluto ricordare. Nei 29 anni trascorsi dalla morte di Lidia sono avvenuti alcuni errori che hanno inevitabilmente ostacolato la ricerca della verità: come la distruzione nel 2000 dei vetrini con lo sperma del probabile assassino e dei vestiti di Lidia, giudicate prove ormai inservibili dall'allora gip Ottavio D'Agostino. Il pubblico ministero Agostino Abate ha pagato col trasferimento il mancato avanzamento nelle indagini, giustificato secondo lui da una vera e propria cortina di omertà tirata su dai conoscenti dell'arrestato e dalla cerchia di Comunione e liberazione. Cortina che adesso il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda, che ha dato nuovo impulso alle indagini, spera di spazzare via.

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