Omicidio di Lidia Macchi, sequestrato un parco a Varese: si cerca l’arma del delitto

Ritrovare l'arma di un delitto avvenuto 29 anni fa. È questo il compito, al limite dell'impossibile, che alcuni militari dell'esercito stanno portando avanti a Varese per conto dei magistrati che indagano sulla morte di Lidia Macchi, la studentessa universitaria uccisa nei boschi di Cittiglio quasi 30 anni fa. Lidia fu ferita mortalmente da numerose coltellate, inferte da un'arma mai ritrovata. Adesso, dopo le rivelazioni di una testimone, il parco del Castello di Masnago è stato recintato e sono partiti degli scavi per cercare proprio il coltello con cui la studentessa di Comunione e liberazione potrebbe essere stata uccisa. Il parco, come riferisce il Corriere della sera, resterà a disposizione della magistratura per 15 giorni.
Gli inquirenti indirizzati verso il parco da un'amica del presunto assassino
A indirizzare gli inquirenti verso quell'area è stata Patrizia Bianchi, la stessa donna che avrebbe riconosciuto la calligrafia dell'ex compagno di liceo di Lidia, S.B., su una lettera spedita alla famiglia della ragazza il giorno dei funerali. Lettera che, assieme ad altri indizi, ha portato all'arresto proprio dell'ex compagno di scuola, ora 48enne, accusato di essere l'omicida. Patrizia Bianchi ha rivelato che 29 anni fa accompagnò l'amico S.B. al parco del Castello di Masnago, dove l'uomo gettò un sacchetto bianco dal contenuto sconosciuto. Per il sostituto procuratore generale Carmen Manfredda, che ha ridato slancio a un'inchiesta che ormai sembrava a un punto morto, nel sacchetto potrebbe esserci proprio il coltello col quale S.B. uccise Lidia Macchi dopo aver avuto con lei un rapporto sessuale.
Ascoltati amici e parenti di Lidia
Oltre che con la ricerca dell'arma, le indagini per risolvere un mistero ormai di quasi 30 anni fa proseguono con gli incidenti probatori richiesti dal magistrato: in tribunale a Varese sono stati ascoltati amici e parenti della vittima e del presunto assassino. Tra loro, oltre alla stessa Bianchi, anche don Giuseppe Sotgiu, sacerdote che avrebbe tentato di fornire un alibi a S.B. nel 1987, all'epoca del delitto, e la mamma e la sorella di Lidia Macchi.