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Covid 19

Milano, il virus non si ferma e non si sa chi contagia: ma da oggi 60mila persone in più al lavoro

A Milano cresce il numero dei contagi, ma non si sa né chi siano i nuovi contagiati né in quali luoghi (lavoro, mezzi pubblici, casa) avvengano le infezioni. Eppure, in questo clima di incertezza che le istituzioni regionali sanitarie non riescono a chiarire, vi sono delle decisioni che paiono quanto meno contraddittorie, se non un vero e proprio salto nel buio. Da oggi ad esempio altre 50-60mila persone nella sola Area metropolitana sono tornate al lavoro, aumentando i potenziali rischi. Mentre per quanto riguarda i contagi all’interno della famiglia, se il tema è isolare le persone lontano dai propri parenti, perché l’hotel Michelangelo messo a disposizione proprio per questo motivo è semi vuoto?
A cura di Francesco Loiacono
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A Milano la gente, a parte sparute minoranze, resta in casa e osserva scrupolosamente le misure di contenimento per contenere la pandemia da Coronavirus. Eppure, come mostrano i dati – seppur incompleti – sciorinati ogni giorno dalla Regione Lombardia, i contagi non si arrestano. Perché? Una rapida analisi di quanto accaduto l'ultima settimana alimenta incertezze e malumori, soprattutto alla luce della parziale riapertura iniziata già oggi, martedì 14 aprile, e di quella ancora più massiccia che potrebbe avvenire a partire dal 4 maggio. Martedì 7 e mercoledì 8 aprile l'incremento giornaliero dei positivi era stato di 99 e 80 casi rispetto ai giorni precedenti. Dati che, come sempre in maniera un po' grossolana, erano stati interpretati dall'assessore Gallera come positivi. Ma da allora, mediamente, gli incrementi giornalieri sono stati sempre più consistenti, fino ai 296 in più di ieri, lunedì 13 aprile. Eppure da oggi, martedì 14 aprile, ben 50-60mila lavoratori in più saranno in giro in tutta l'Area metropolitana, dove i contagi sono arrivati a 14.161 (con un aumento di 481 casi).

L'ennesimo salto nel buio

Un azzardo? Una contraddizione? Forse, al momento, si tratta "solo" di un salto nel buio – l'ennesimo -, nella gestione dell'emergenza Coronavirus. Perché, al di là del dato numerico – un dato parziale e sottostimato perché riguarda solo chi è sottoposto al tampone e che fotografa ciò che è successo circa 14 giorni fa, cioè in un periodo in cui il lockdown era più serrato rispetto a ciò che avverrà a partire da oggi – c'è un aspetto fondamentale che continua a mancare per capire come si stia evolvendo la pandemia. E cioè: chi sono i contagiati? Dove contraggono l'infezione? Sui mezzi pubblici, nei luoghi di lavoro, in casa (a parte la questione contagi nelle case di riposo, su cui farà luce la magistratura)? Sono interrogativi che emergono con sempre più forza, sia da chi li pone per alimentare polemiche politiche (come alcuni assessori del Comune di Milano), sia da una quota sempre maggiore di cittadini esasperati perché sentono che i loro sacrifici non stanno portando a risultati apprezzabili, ma anzi che il virus a Milano sembra correre più che in altre zone della Lombardia.

A Milano 80mila persone impegnate nei lavori domestici: "Le più esposte"

Se, come ha detto il sindaco di Milano Beppe Sala, la "retorica del milanese indisciplinato" non è supportata dai dati e solo il 5 per cento delle persone fermate durante i controlli delle forze dell'ordine non è in regola, significa che il 95 per cento di chi è in giro si sposta per necessità: lavorativa, per lo più. E allora forse per capire chi si contagia ci si deve spostare sul lavoro. Il responsabile del Dipartimento mercato del lavoro di Cgil Milano, Antonio Verona, ha fornito alcuni dati a Fanpage.it: su un totale di circa 1,5 milioni di lavoratori in tutta la provincia, tra dipendenti e autonomi, da oggi sono al lavoro per effetto dell'ultimo Dpcm del governo (che l'ordinanza regionale della Lombardia ha solo in parte attenuato) circa 580mila persone, 50-60mila in più rispetto ai giorni scorsi. A questa cifra si devono però aggiungere 80mila lavoratori impegnati nel settore dei lavori domestici: chi fa le pulizie in casa, i badanti, le colf, persone la cui attività non si è mai arrestata durante l'emergenza. È su di loro che si focalizza l'attenzione di Verona: si tratta di persone che, rispetto a chi lavora in una fabbrica, hanno meno opportunità di accedere a dispositivi di protezione individuali (le mascherine, ad esempio). Si spostano prevalentemente con i mezzi pubblici, ulteriore occasione di contagio, vivono nelle periferie o in quelle che un tempo erano chiamate le situazioni dormitorio dell'hinterland di Milano. "Il lavoro domestico è un punto nero – dice Verona – sono persone particolarmente esposte alle infezioni, le meno protette, le più vulnerabili. Non sono stati fermati dai decreti anche perché c'è una fortissima carenza di servizi alle persone sul territorio, che sono stati marginalizzati da decenni". Sono i lavoratori quindi a contagiarsi a Milano? Difficile da dire con certezza. Ma nell'incertezza comunque si "riaprono" attività e si mandano in giro per la città e la provincia altre 60mila persone. "Come Fimmg (Federazione italiana dei medici di medicina generale) avevamo proposto di fare il tampone a tutti quelli che tornavano a lavorare – dice a Fanpage.it Anna Carla Pozzi, segretaria provinciale di Milano – in maniera da rimettere in circolazione persone sicuramente negative. Non più un tampone per la diagnosi, ma per essere sicuri che il soggetto che ha avuto sintomi sia ritornato negativo". Una proposta che però non ha avuto seguito.

Pedrini (Fimmg): Contagi in lockdown sono riconducibili alla famiglia

Oltre ai contagi in ambito lavorativo (o durante gli spostamenti), altri luoghi di contagio a Milano potrebbero essere le case, i "nuovi focolai", come sostenuto alcuni giorni fa dal professor Massimo Galli. "A Milano forse l'epidemia è arrivata più in ritardo rispetto alle altre province lombarde – dice la segretaria regionale della Fimmg Paola Pedrini a Fanpage.it -. Ma in generale i contagi che avvengono dopo il lockdown sono riconducibili a nuclei famigliari o case in cui ci sono più conviventi, perché l'isolamento non è sempre facile da mettere in atto. Non tutti hanno degli appartamenti così grandi o un secondo bagno. Una criticità di questo tipo di gestione – prosegue Pedrini – è che non si sono individuate a sufficienza queste persone sospette Covid per allontanarle dal nucleo famigliari".

Se il tema è l'isolamento dalle famiglie, perché i Covid hotel sono mezzi vuoti?

Ma anche quando lo si è fatto, come nel caso dell'Hotel Michelangelo a Milano, qualcosa nel sistema dei cosiddetti "Covid hotel" non ha funzionato: "All'Hotel Michelangelo abbiamo aperto il primo spazio dedicato a chi vuole o ha bisogno di fare una quarantena in sicurezza e vive abitualmente in spazi che potrebbero mettere in pericolo familiari e conviventi – ha scritto oggi l'assessore all'Urbanistica di Milano Pierfrancesco Maran -. Attualmente ospitiamo 102 persone su quasi 300 posti, in più abbiamo individuato altre 15 strutture idonee che potrebbero essere aperte. Ne ospitiamo 102 perché non ce ne mandano di più e viene da chiedersi se davvero non esiste una domanda superiore". Qualcuno, si chiede l'assessore, ha domandato ai nuovi positivi milanesi registrati negli scorsi giorni "se mettono a rischio i familiari, se hanno bisogno di essere ospitati in strutture dedicate?". Anche in questo caso risposte non ce ne sono, certezze men che meno. Ma intanto gli hotel (che ricordiamo in Lombardia sono chiusi, a parte qualche eccezione, anche per essere messi a disposizione dell'emergenza sanitaria) a Milano non vengono riempiti.

La quarantena passa da 14 a 28 giorni: qualcuno è tornato al lavoro ancora positivo?

L'incremento dei contagi a Milano può essere dovuto infine anche a un altro aspetto: "Bisognerebbe in primis capire di quali zone della città parliamo, perché per esempio oggi da me (area Est) è una giornata tranquilla rispetto ad altre – dice Anna Carla Pozzi -. E poi recentemente (la comunicazione dell'assessore Gallera in merito è arrivata due giorni fa, ndr) abbiamo scoperto che il virus può rimanere attivato anche dopo i 14 giorni, tanto che da oggi io ai miei pazienti ho prolungato la quarantena a 28 giorni. Potrebbe essere che questi pazienti, soprattutto i primi che si sono ammalati, a cui era stato detto di stare a casa per 14 giorni dopo i sintomi, siano tornati al lavoro quando erano ancora positivi, anche perché a loro non è mai stato fatto il tampone". E qui ritorna un altro aspetto dell'emergenza che è stato molto criticato, e cioè i pochi tamponi effettuati: "Se avessimo fatto più tamponi, forse avremmo delimitato un po' di più il contagio. Ma per esempio a me non hanno mai fatto un tampone, dall'inizio dell'emergenza". E quindi anche legare l'incremento dei casi a Milano al maggior numero di operatori sanitari "tamponati" non è così automatico: un'altra incertezza con cui fare i conti.

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