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Milano, 40 anni fa l’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Il figlio Umberto: “Una storia sempre attuale”

La notte dell’11 luglio 1979 l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana di Michele Sindona, viene assassinato davanti alla sua casa in via Morozzo della Rocca a Milano. A ucciderlo, con quattro colpi di pistola esplosi da distanza ravvicinata, è un sicario della mafia italo-americana assoldato proprio dal banchiere siciliano di Patti. A 40 anni da quell’omicidio la vicenda di Giorgio Ambrosoli, l’eroe “borghese” morto per aver adempiuto al suo dovere senza piegarsi di fronte alle pressioni di un sistema politico-finanziario corrotto e senza regole, è ancora di disarmante attualità. Il figlio Umberto, intervistato da Fanpage.it, ci spiega perché.
A cura di Francesco Loiacono
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Giorgio Ambrosoli
Giorgio Ambrosoli

La notte dell'11 luglio 1979 l'avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana di Michele Sindona, veniva assassinato davanti alla sua casa in via Morozzo della Rocca a Milano da un sicario della mafia assoldato proprio dal banchiere siciliano. Quarant'anni dopo la storia di quello che venne definito da Corrado Stajano "un eroe borghese", un uomo che decise di portare a termine con senso di responsabilità il proprio lavoro anche a costo della vita, continua a essere un esempio di disarmante attualità. Fanpage.it ha intervistato Umberto Ambrosoli, uno dei figli di Giorgio, anche lui avvocato: dopo un'esperienza in politica come candidato del centrosinistra alle Regionali lombarde del 2013 e il sostegno a Beppe Sala alle amministrative 2016, è stato presidente della Banca popolare di Milano ed è ora al vertice della Banca Aletti. Ma Umberto Ambrosoli è anche un testimone della vicenda privata e pubblica del padre Giorgio, raccontata nel libro "Qualunque cosa succeda" pubblicato per la prima volta dall'editore Sironi nel 2009 (seconda edizione nel marzo 2014).

La storia che riguarda suo padre, 40 anni dopo, continua a essere ricordata e sembra sempre più attuale.

Le occasioni di memoria della vicenda di papà sono tantissime e la consapevolezza da parte di tanti cittadini, non solo milanesi, del significato di quella storia è molto importante. Qual è il significato di quella storia e qual è la sua dimensione di attualità? È ovvio che il contesto storico da tantissimi punti di vista è cambiato: papà si è opposto a un determinato sistema di potere, intendendo per sistema sia gli attori sia le modalità operative. Quegli attori non ci sono più: l'humus nel quale quegli attori agivano è cambiato totalmente, tuttavia i meccanismi del potere, che sono un pezzo del sistema del potere, non sono così tanto cambiati perché sono quelli dell'essere umano. L'essere umano cerca di affermare il proprio interesse personale e in alcuni casi è disposto a farlo anche a scapito dell'interesse collettivo. Ed è disposto a farlo in alcuni casi utilizzando strumenti che non sono tollerati dagli ordinamenti, quali i tentativi di corruzione e le minacce. Papà ha incontrato esattamente questo: un sistema di potere fatto da chi rappresentava le più alte responsabilità nel nostro Paese in ambito politico, economico, finanziario, anche nell'ambito della giustizia. E alcuni di quei protagonisti erano consapevoli di far parte di una consorteria non necessariamente organizzata alla quale non era estranea la criminalità di stampo mafioso, capaci di utilizzare gli strumenti peggiori per fermare coloro che si opponevano agli interessi di quella consorteria. E allora l'attualità è nella dimostrazione della capacità dell'essere umano di rimanere libero dal fascino di quel sistema, dal pensiero dell'interesse personale anche quando quell'interesse è aver salva la vita e da ogni forma di condizionamento volto a limitare o negare la responsabilità che si è scelta.

Alla memoria di suo padre è stato intitolato anche un premio, assegnato a chi ha seguito l'esempio di Giorgio Ambrosoli.

Il sottotitolo è "all'integrità, alla professionalità e alla responsabilità per la difesa dello stato di diritto". Negli ultimi anni questo premio è stato attribuito a decine di persone: abbiamo chi vive all'interno dell'istituzione con una responsabilità politica, sindaci e assessori che riescono a esercitare la loro funzione nonostante le minacce che dal loro territorio contro di loro vengono esercitate. Abbiamo persone prestate alle istituzioni o che operano all'interno delle istituzioni e poi liberi professionisti, ciclisti che si sono opposti al mondo del doping, calciatori che hanno svelato il sistema del calcio scommesse… Esiste una diffusione molto maggiore di quella che immaginiamo di chi è capace di esercitare la propria responsabilità fino in fondo.

Nonostante l'esempio di suo padre e di altri "eroi" come lui, caduti in quegli anni turbolenti della storia d'Italia, il valore della legalità fatica tutt'oggi ad affermarsi.

A fronte di un malcostume francamente dilagante – se pensiamo al nostro atteggiamento di fronte ai doveri fiscali e tributari, alla dimensione degli abusi edilizi – ci rendiamo conto che il valore della legalità non è un valore che si è francamente affermato. Ed è fuori di dubbio che alcune condotte siano quasi promosse come condotte virtuose. Dobbiamo fare un passo in più: e quello che genera un po' di sconforto è che sono tanti gli esempi che ci hanno dimostrato quanto deleterio sia il degrado rispetto al sistema delle regole e allo stesso tempo quanto virtuoso sia per tutta la società il rispetto dell'ordinamento e la capacità di vivere a fondo la propria responsabilità. Ecco, sono talmente tanti gli esempi in una direzione e nell'altra che la nostra scelta come collettività e come individui dovremmo averla già fatta tutti. Eppure, invece, si continua in tanti contesti a coltivare un sistema anti statuale, anti regole, contro il rispetto della persona e della collettività.

La vicenda che riguarda suo padre si inserisce all'interno di un sistema economico e finanziario opaco, con attori che agiscono in maniera spregiudicata e controlli laschi se non inesistenti.

Una delle spiegazioni della crescita incredibile di Sindona della creazione dal nulla di un impero, cosa che giustamente creava attorno a lui anche un alone di fascino, è data dall'incapacità del sistema normativo di allora di prevenire distorsioni come quelle delle quali è stato protagonista, delle quali è stato protagonista Calvi e così via. La principale responsabilità di chi ha interpretato la politica in quegli anni rispetto a queste vicende è stata quella di non aver voluto fare le riforme necessarie per stare al passo coi tempi. La finanza si stava modificando incredibilmente, esistevano opportunità pazzesche date dalle connessioni internazionali del mondo finanziario e il nostro ordinamento andava avanti con una regolamentazione non più al passo coi tempi. Si è data la possibilità a chi aveva la capacità di cogliere quelle opportunità di agire violando i principi sostanziali del mercato finanziario: la trasparenza, se non imposta come un obbligo, consentiva delle operazioni tutt'altro che virtuose da un punto di vista finanziario. E molti dei crack di quegli anni li dobbiamo leggere attraverso questa lente: la principale responsabilità della politica di allora è stata quella di non voler adeguare l'ordinamento alla realtà del mercato.

E oggi cos'è cambiato in quel sistema? Sarebbe possibile un nuovo caso Sindona?

Nel frattempo il sistema si è evoluto: proprio dalla vicenda della Banca privata italiana, del Banco ambrosiano e di un altro fallimento importante in Germania sono nati i presupposti per la regolamentazione che va sotto il nome di Basilea 1. Nel frattempo di Basilea ne sono stati fatti altri due, nel senso che è stata aggiornata in termini sostanziali altre due volte: perché, perché più alzi la stanghetta dell'ostacolo più chi ha voglia di superare quell'ostacolo si allena per trovare il modo di riuscirci e allora l'ostacolo va alzato, adeguato tutte le volte alle nuove potenzialità di chi vuole agire in termini impropri. Ora è più facile di allora prevenire delle situazioni patologiche. Non è impossibile, e a far la differenza è la responsabilità di ogni individuo, quale che sia il suo livello di potere: se esercita completamente la propria responsabilità, allora le strutture all'interno delle quali egli opera potranno intercettare eventuali distorsioni, alternativamente proprio no.

Un'altra dimensione attuale della vicenda di suo padre è legata alla sua tesi di laurea sul Consiglio superiore della magistratura. Una tesi incentrata sulla libertà e l'indipendenza dei giudici, gli stessi che oggi vengono criticati e attaccati duramente da una parte della politica…

Il potere politico da sempre ha l'ambizione di diventare potere assoluto: solo politici particolarmente illuminati capiscono che nella tripartizione dei poteri c'è un qualcosa di straordinariamente virtuoso. E molti che riconoscono questo principio, quando poi interpretano la responsabilità politica, nella declinazione pratica arrivano a negarlo. E quindi di sentenze criticate, anche con metodi e con parole grevi siamo purtroppo abituati a vederne: dico purtroppo perché invece nell'autonomia e dell'indipendenza del potere della magistratura rispetto agli altri poteri incluso l'esecutivo e il legislativo c'è qualcosa che preserva in senso assoluto la dimensione democratica del nostro Paese: tolto quello la dimensione democratica è a rischio, anzi viene meno. La caratteristica di questa fase, di questi giorni, è che a fronte di qualche esponente del mondo politico che ha quegli atteggiamenti troviamo una magistratura indebolita come non mai. Perché le dinamiche della magistratura si sono palesate molto simili a quelle della politica in relazione a determinate scelte, come quelle sull'organizzazione e sull'attribuzione dei ruoli di massima responsabilità. Mi riferisco chiaramente al cosiddetto "scandalo del Csm" di questi giorni. Quel che mi preoccupa maggiormente è questo disequilibrio che oggi c'è, determinato in parte dallo straordinario volume di alcuni esponenti politici, dall'altro dalla auto delegittimazione che la magistratura ha posto in essere di se stessa.

La vicenda di suo padre è anche un dramma privato, quello di un figlio che ha perso il padre a 7 anni e di nipoti che non hanno mai conosciuto il loro nonno. Cosa racconta di suo padre ai suoi figli?

Dalla vicenda di papà sono stati tratti diversi libri, a partire da "Un eroe borghese' di Stajano del 1991 e la sua storia è stata raccontata in tantissime forme di espressione: film, film tv, spettacoli teatrali, rappresentazioni pubbliche, perfino un bellissimo fumetto. Sono tutti strumenti a disposizione dei miei figli. Ovviamente con loro però principalmente ne parlo: hanno la fortuna di poter ascoltare anche la testimonianza di mia mamma (Anna Lori) che non è poca cosa perché offre una prospettiva molto più completa di quella che posso offrire io, soprattutto per quelli che sono i ricordi della normalità della persona. A sette anni si è relativamente grandi: io ho tanti ricordi, ma non ne ho un numero incredibile. Poi la memoria nel tempo seleziona, per cui ho la sensazione di avere a disposizione sempre gli stessi ricordi da narrare. Quello che però cerco di rappresentare ai miei figli è come quella del nonno sia una storia bella: sì dolorosa, sì complicata, ma bella. Perché dimostra come ciascuno di noi abbia la possibilità di mettere a frutto la propria vita, non di passare il tempo, ma di utilizzarla per migliorare il mondo nel quale viviamo. Ed è questo che papà, col suo esempio e con la sua testimonianza, ci consegna.

Suo padre è, per tanti, l'eroe borghese, come lo ha definito Stajano. Eppure il termine "eroe", esteso anche alle tante persone che hanno perso la vita facendo il proprio dovere, come lui, nasconde anche delle insidie.

Penso che il titolo del libro ‘un eroe borghese' sia meraviglioso, sia proprio stupendo. Rappresenta tante cose e tra queste rappresenta anche una persona che poteva starsene tranquillo nella sua dimensione di benessere, con una professione che certamente lo appagava, senza bisogno di andarsi a esporre ai rischi specifici ai quali invece si è esposto. Il problema è che eroe evoca sempre qualcosa di straordinario: l'eroe è il frutto dell'incontro nella mitologia tra una divinità e un essere umano, è il figlio di una divinità e di un essere umano. E quindi è più di un essere umano. Quando noi ci raffrontiamo con storie come quella di papà, di Guido Galli, di tanti magistrati, giornalisti e avvocati che sono stati uccisi in ragione del loro impegno per la collettività, ci viene facile porli su un altare, che è un gesto identico al definirli eroi. E infatti li definiamo anche eroi. Il problema è che quell'altare segna la differenza e la distanza tra il nostro mondo e il loro, così come definirli eroi: loro sono qualcosa di più, io sono normale. E allora da normale io non mi sento impegnato quanto loro si sono sentiti impegnati, o per lo meno accetto l'idea di non dovermi impegnare quanto loro si sono impegnati perché loro erano degli eroi, avevano la possibilità di farlo, mentre io sono una persona normale. Questo genere di razionalizzazione magari riguarderà pochissime persone, però a me preme proprio dire che quella è la normalità: che quelle vite, che sono vite piene e che benché interrotte tragicamente hanno realizzato la ragione della loro esistenza, sono un'opportunità accessibile per ciascuno di noi. Finché consideriamo quei comportamenti degni solo di persone straordinarie renderemo difficile cambiare la realtà delle cose. Quando invece saranno comportamenti che apprezzeremo nell'ordinarietà e che saremo capaci di "mettere a terra" nell'ordinarietà avremo già cambiato tutto.

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