La prima foto europea del Coronavirus nel rene: la scoperta esclusiva dell’Istituto Mario Negri
Una piccola sfera scura circondata da una serie di proiezioni di glicoproteina S, i famosi spikes (spuntoni) che formano la "corona". La prima foto europea del virus all’interno di una cellula renale sembra uguale a tutte le altre viste finora. Invece quella che il professor Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri ha mostrato in anteprima europea a Fanpage.it è tutta un’altra storia. "Questa scoperta è fondamentale ed è la prima volta che viene evidenziata in Europa. Molti pazienti muoiono per insufficienza respiratoria ma moltissimi altri muoiono per la compromissione di altri organi, in particolare per insufficienza renale – spiega il prof. Remuzzi, dal luglio 2018 direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche bergamasco -. Il fatto di aver trovato il virus nel rene ci fa capire che si attacca alle strutture renali, cosa che non sapevamo prima, danneggia l’endotelio, danneggia l’epitelio, stacca queste cellule, fa passare proteine attraverso le urine e questo comporta insufficienza renale. In questo modo sappiamo come non farlo arrivare al rene. Averlo trovato è una cosa fondamentale per trovare la soluzione alla malattia".
Il numero dei morti è tornato a prima dell'emergenza
L’Istituto Mario Negri è un polo d’eccellenza della ricerca che ha costruito una solida collaborazione – iniziata nel 1979 – con l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, la struttura che più di tutte ha affrontato l’emergenza Covid-19 in prima linea. "Pensate che da 9 giorni il numero di pazienti che muoiono nel nostro ospedale è 2,3 – spiega Remuzzi – che è esattamente il numero pazienti che morivano prima dell’emergenza Covid. E proprio lì al Papa Giovanni XXIII, grazie al continuo scambio col Mario Negri, è stata messa a punto una nuova tecnica che potrebbe essere rivoluzionaria. Nelle scorse settimane il reparto di Nefrologia (diretto da Piero Luigi Ruggenenti) ha infatti iniziato a estrarre anticorpi dai pazienti guariti da Covid-19 per infonderli nei malati in condizioni gravissime in terapia intensiva. Una tecnica simile, per i profani, a quella dell’infusione del plasma di cui si sta parlando in questi giorni, ma in realtà molto diversa perché prevede la somministrazione nel paziente solo di un concentrato di anticorpi.
"Noi pensiamo che il plasma ma soprattutto gli anticorpi dei pazienti guariti, siano la soluzione. Credo che forse sia la cosa più sicura che abbiamo in mano in questo momento per curare i malati gravi", aggiunge Remuzzi che ci accompagna nel laboratorio dove hanno evidenziato il virus nelle cellule renali provenienti da autopsie su malati di Covid condotte dall’anatomopatologo del Papa Giovanni XXIII, Andrea Gianatti. "Siamo riusciti a capire quali sono i sistemi che entrano in gioco quando il sistema immune invece di proteggerci, ci danneggia – spiega ancora Remuzzi -. C’è una reazione spropositata del sistema immunitario che crea queste polmoniti difficilissime da curare. Abbiamo compreso che quelle polmoniti dipendono da altri sistemi attivati dal sistema immune, uno si chiama ‘sistema del complemento'. Un amico, in genere, che è nato per difenderci dalle infezioni ma che di fronte al coronavirus provoca una reazione esagerata del corpo che provoca il danno".
Una reazione a catena. Per questo il professore paragona il polmone a Ground Zero, il cratere delle Torri Gemelle che è solo il punto di partenza di una tragedia con ripercussioni ad ampio raggio. "Subito dopo il virus attacca il fegato, il cuore, anche lì ci sono recettori per il virus. Una volta che ha superato le barriere polmonari, raggiunge arterie e vene, poi passa in tutti gli organi. Uno studio di ‘Science' di questi giorni dice che se non muori per insufficienza respiratoria, muori per insufficienza renale. Qui stiamo studiando cosa porta a questi danni e cosa fa in modo che il virus arrivi ai vasi sanguigni attivando il sistema del complemento".
Il farmaco da 400mila euro
Al Mario Negri hanno capito che la loro arma (potenziale) esisteva già: farmaci che inibiscono l’attivazione del sistema del complemento. Li hanno somministrati ad alcuni pazienti Covid e hanno tracciato uno studio che ha evidenziato i risultati del più efficace, l’Eculizumab, un farmaco normalmente utilizzato per una malattia rara. "Lo usiamo quando c’è una mutazione del sistema del complemento, il quadro più drammatico riguarda i bambini, la cui prognosi era terribile fino a qualche tempo fa: morivano praticamente tutti entro 6 anni dalla prognosi e chi si salvava era costretto a fare la dialisi – continua Remuzzi -. Questo farmaco, invece, li salva. Il problema è che un anno di trattamento costa 400mila euro. Ma la ditta che produce questo farmaco a questo prezzo, per i pazienti Covid ce l’ha regalato. Non sappiamo ancora con certezza gli effetti. Può darsi che nelle fasi iniziali della malattia sia meglio usare il farmaco che ferma il complemento, può darsi che nella fase più avanzata siano meglio gli anticorpi".
(Ha collaborato Simone Giancristofaro)