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Diana Bracco, pena ridotta in appello: un anno e 9 mesi, cade l’accusa di appropriazione indebita

La Corte d’appello di Milano ha condannato Diana Bracco a un anno e nove mesi per frode fiscale. L’imprenditrice, a capo dell’omonimo gruppo farmaceutico, nell’ottobre del 2016 era stata condannata a due anni per frode e appropriazione indebita: quest’ultima accusa è caduta in secondo grado. Il legale dell’imprenditrice ha annunciato l’intenzione di ricorrere in Cassazione.
A cura di Francesco Loiacono
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Pena ridotta per Diana Bracco, ex presidente di Expo a capo del gruppo industriale di famiglia. La Corte d'Appello di Milano ha condannato l'imprenditrice a un anno e nove mesi per frode fiscale. A ottobre del 2016 la Bracco, ex vicepresidente di Confindustria, era stata condannata a due anni (con sospensione condizionale della pena e non menzione della condanna) per frode e appropriazione indebita. Quest'ultima accusa è però caduta in secondo grado, mentre l'entità della pena è stata ridotta: "L'accusa di appropriazione indebita è venuta meno con un'importante riduzione della pena", ha dichiarato il legale della Bracco, Giuseppe Bana, che ha però annunciato l'intenzione di ricorrere in Cassazione per ottenere il proscioglimento totale della sua assistita.

L'inchiesta che ha coinvolto la Bracco era venuta alla luce nel maggio 2015, quando era appena iniziato l'Expo di Milano presieduto proprio dall'imprenditrice. Secondo la procura di Milano (tesi confermata dai giudici in primo e secondo grado) la Bracco avrebbe commesso una frode fiscale da un milione di euro in veste di amministratrice del gruppo farmaceutico di famiglia. La frode sarebbe stata commessa addebitando ai bilanci della società, una Spa con rami anche in settori diversi da quello farmaceutico, spese personali della Bracco tra cui ristrutturazioni di case in famose località turistiche come Capri, Megeve e la Provenza e la manutenzione di barche. Diana Bracco ha già appianato la propria situazione con il Fisco mediante ravvedimento operoso. Il legale dell'imprenditrice ha sempre sostenuto l'infondatezza a livello penale delle accuse, circoscrivendo gli episodi contestati a un livello meramente fiscale. Da qui la decisione di ricorrere contro la sentenza emessa dalla Corte d'Appello milanese.

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