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“Buttavamo i morti nelle fosse comuni”: il 98enne Giuseppe racconta gli orrori dei nazisti

Giuseppe Regola, milanese di 98 anni, durante la Seconda guerra mondiale venne deportato, come internato, nei campi di prigionia nazisti. Con lucidità e precisione Giuseppe, che recentemente ha ricevuto la medaglia d’onore concessa con decreto del Presidente della Repubblica, ha raccontato a Fanpage.it la sua storia, una testimonianza fondamentale per comprendere gli orrori della guerra e del nazismo e far sì che quelle tragiche pagine di storia non si ripetano mai più.
A cura di Luca Giovannoni
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Giuseppe Regola (Foto Davide Arcuri/Fanpage.it)
Giuseppe Regola (Foto Davide Arcuri/Fanpage.it)

"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario". In una delle citazioni più famose di Primo Levi si riassume la storia di Giuseppe Regola, un uomo di 98 anni che ha vissuto qualcosa che può e anzi deve essere raccontato, ma che allo stesso tempo può essere capito davvero soltanto da chi ha vissuto esperienze simili. Nel corso della sua esistenza Giuseppe non solo ha dovuto patire le sofferenze e le privazioni della Seconda guerra mondiale, ma ha anche conosciuto il calvario dei campi di prigionia nazisti, dove è stato internato per aver fatto parte dell'esercito italiano. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e fino al maggio 1945 Giuseppe è stato internato in otto diversi Konzentrationslagercosì come venivano chiamati i campi dai gerarchi del Reich. Lo scorso giovedì 10 ottobre, a più di settant'anni da quell'inferno, l'ex tenente Regola e altri reduci hanno ricevuto a Milano le medaglie d'onore concesse con decreto del Presidente della Repubblica ai cittadini italiani internati nei lager. Intervistato da Fanpage.it, Giuseppe ha deciso di renderci partecipi della sua tragica esperienza di vita. Il tempo non ha scalfito la memoria di Giuseppe, che nel corso dell'intervista ci racconta della sua esperienza negli anni della guerra, quando ancora ragazzo è stato costretto, come tanti giovani, a lasciare la famiglia e imbracciare le armi.

Cosa le successe quando l'Italia entrò in guerra?

Ero iscritto al Politecnico però non lo potei finire, perché fui chiamato alle armi subito. Fui mandato ad Ancona e da lì col piroscafo fino a Zara (provincia italiana in Dalmazia tra il 1923 e il 1944, ndr).

Cosa fece una volta arrivato a Zara?

Da Zara mi mandarono in un'isola, che si chiama Morter. In quest'isola, che abbiamo occupato, c'era un forte che si chiamava Raduc, enorme. C'era un cuoco napoletano che faceva il ragù – ricorda Giuseppe con uno dei pochi sorrisi nel suo racconto – Lo teneva su cinque ore, però…

La dura realtà della guerra ebbe ben presto la meglio.

Mi mandarono a Spalato perché avevano bisogno di costruire delle pompe. Quando arrivai lì ci fu un attacco marino da parte dei sommergibili inglesi. Cominciarono a sparare siluri e io per la paura mi buttai in mare, quando mi fecero risalire sulla nave c'erano un sacco di morti.

Cosa successe dopo l'armistizio?

Dopo l'8 settembre 1943 mi hanno deportato in Germania, non come prigioniero, ma come internato. È differente: perché il prigioniero ha la possibilità di ricevere gli aiuti della Croce rossa, l'internato no.

C'è anche una singolare coincidenza nella sua prima destinazione.

Il primo viaggio fu a Wietzendorf, in Germania, dove era stato prigioniero mio padre durante la Prima guerra mondiale.

Cosa accadde in seguito?

Da Wietzendorf sono andato in Polonia, a Deblin. Lì ci facevano mangiare una volta al giorno, un minestrone di rape, uno schifo assoluto. Dormivo su un letto a castello, due piani. Non c'era niente, solo un po' di paglia sopra. Con un coltello tiravamo via dei pezzi di legno dal letto e li gettavamo in una stufa per scaldarci.

Cosa ricorda in particolare di quel tragico periodo?

In un caso ci fecero portare i morti dei bombardamenti al cimitero, alla fossa comune, tutti buttati dentro. Un'altra volta ci fecero fare una marcia di 40 chilometri a piedi, ogni tanto qualcuno cadeva e i tedeschi gli sparavano.

Cosa ricorda invece della sua liberazione dal campo di prigionia di Sandbostel?

Quando arrivarono gli inglesi mi affidarono a un tenente, Andersen. Ci misero su un treno per tornare a casa. Una volta rientrato in Italia avevo con me 50 lire. Decisi di entrare in un negozio per comprare una bottiglia di vino, ma mi scoppiarono a ridere in faccia. Quei soldi ormai non valevano più nulla".

Quella di Giuseppe è una testimonianza lucida e preziosa

La vita ha continuato a scorrergli nelle vene fino a oggi, nonostante le ferite degli anni della guerra non siano ancora state rimarginate dal tempo. Nei giorni in cui le cronache parlano di odio social nei confronti di un simbolo come la senatrice Liliana Segre, vittima dei campi di sterminio nazisti, è più giusto che mai tenere acceso il lume della memoria. Persone come Giuseppe Regola incarnano un pezzo della nostra storia, una storia intrisa nel sangue e nelle lacrime degli innocenti, che oltre a essere stampata sui libri, può ancora essere raccontata da pochi, fortunati sopravvissuti.

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