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Assessore Rabaiotti: “Milano si sentiva immortale, coronavirus ricorda che ha bisogno degli altri”

“L’orgoglio milanese rischia di dilatarsi fino a sfociare in un senso di autosufficienza e nell’idea che ‘ce la possiamo sempre fare da soli’. Questa emergenza forse l’ha ridimensionato e ci ha riportati nel nostro limite. Il coronavirus ci ha ricordato che, tutto sommato, da soli non ce la facciamo”. È la riflessione di Gabriele Rabaiotti, assessore milanese alle Politiche Sociali, che intervistato da Fanpage.it si interroga sugli effetti della tragedia dell’epidemia che ha contagiato migliaia di persone a Milano, la città con più casi in Italia. C’è una lezione che la città può imparare dall’esperienza della pandemia. “Ci ha ricordato che serve a qualcosa l’esistenza di un Paese, di una pluralità di soggetti e di voci. Vale soprattutto per chi pensava che in questa fierezza ambrosiana ci fosse una componente di immortalità”.
A cura di Simone Gorla
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"Esiste una dimensione in cui l'orgoglio milanese rischia di dilatarsi, fino a sfociare in un senso di autosufficienza e nell'idea che ‘ce la possiamo sempre fare da soli'. Questa emergenza forse l'ha ridimensionato e ci ha riportati nel nostro limite. Vale soprattutto chi pensava che in questa fierezza ambrosiana ci fosse una componente di immortalità". Gabriele Rabaiotti, assessore milanese alle Politiche Sociali, intervistato da Fanpage.it ha riflettuto sulla portata degli effetti dell'epidemia di covid-19 a Milano. E si chiede se la città può imparare una lezione dalla lunga apnea imposta dal coronavirus. Il blocco di tutte le attività e la quarantena, i morti e gli ospedali pieni, la paura e il senso di impotenza: la sensazione è di essere più fragili di prima.

Milano può fare tesoro di tutto questo?

Il virus ci ha riportato all'idea che, tutto sommato, da soli non ce la facciamo. Ci ha ricordato che serve a qualcosa l'esistenza di un Paese, di una pluralità di soggetti e di voci. Questo ci richiama e riconduce a un meccanismo di maggiore attenzione alle altre città, agli altri sistemi. Su questo tutti abbiamo da imparare. Quando le cose non vanno bene capiamo cosa significa poter contare sul supporto degli altri. Insieme siamo veramente più forti e questa esperienza ci può far riflettere.

È per un senso di "immortalità" che Milano e il suo sindaco hanno insistito sul "non fermarsi", un messaggio che si è rivelato sbagliato?

Penso che un po' tutti abbiamo sbagliato all'inizio. Abbiamo pensato che la situazione non fosse così grave. Forse fa parte di un istinto di sopravvivenza, non solo di un errore istituzionale. Si pensa che le cose siano meno gravi di come appaiono, è un meccanismo che ci motiva ad andare avanti. Non era una sottovalutazione intenzionale, ma più la speranza che la situazione non fosse così drammatica.

Come affronterete i difficili mesi che inevitabilmente ci aspettano dopo il picco della crisi?

La risposta è che non ci sto ancora pensando. Siamo concentrati sulla gestione dell'emergenza, che non ci permette molto di alzare la testa e avere un pensiero lungo sul dopo. Credo però che andrà ripensato il ruolo del pubblico. È come se l'emergenza ci avesse costretto ad andare all'osso della vicenda. negli ultimi decenni abbiamo caricato la sfera pubblica di domande, istanze, esigenze che hanno gravato ma potevano anche essere soddisfatte con modalità alternative. Mentre ora abbiamo capito molto bene che alcuni temi – come la salute e la protezione della comunità – o li segue il pubblico o non li segue nessuno. Forse dopo la crisi sarà un ridisegno dell'impalcatura dell'azione pubblica che ora si disperde su molti fronti. Bisogna ragionare sul ruolo del pubblico a livello strutturale, è un tema che dovrà essere aperto.

Quali sono le priorità da ripensare?

La sanità e la salute devono tornare al primo posto. Poi vengono la cura della fragilità, la formazione, l'educazione e coscienza civica. Questi sono i nodi che in questo momento sono venuti al pettine. Le altre cose possono procedere con minore sforzo pubblico e con maggiore protagonismo della società. Penso ai temi dello sport e della cultura, forse vanno rimesse in fila alcune priorità e alleggerite alcuni asset.

Le periferie e i quartieri popolari erano già prima il ventre molle della città. Come si evita il rischio di una crisi sociale?

Nei quartieri popolari il tema diventa ora questo: sarà possibile continuare ad avere strutture collettive accanto a quelle domiciliari? Il mondo dell'assistenza a domicilio funziona perché mantiene la persona nella sua rete sociale, dando forza alla comunità. Oggi il tema delle Rsa (Residenze assistenziali sanitarie) è molto caldo, ma in generale bisognerà capire il ruolo delle strutture, che tendono a isolare le persone più fragili e, sottraendole alla comunità, rischiano di escluderle. Dall'altra parte c'è l'idea che la comunità sia il luogo migliore di cura. È un dibattito aperto da tempo e anche questa emergenza ha segnalato l'importanza della combinazione degli interventi pubblici e delle misure di vicinato e spontanee.

Cosa farete per le famiglie in difficoltà immediata?

In questo momento tutte le risorse paiono insufficienti, anche l'intervento dello Stato può sembrare poco. Ma dall'altra parte possiamo verificare cosa questo bicchiere pieno a metà ci permette di fare. Il caso milanese in questo senso lo ritengo più fortunato di altri. Oltre al fondo statale della Protezione civile abbiamo attivato anche il fondo di mutuo soccorso originato da un'iniziativa del Comune di Milano, che è arrivato raccogliere 10 milioni anche dai privati. Abbiamo il fondo San Giuseppe avviato dalla Curia e quelli legati a Fondazione Cariplo e Fondazioni di Comunità. In totale sono circa 20 milioni di euro. Probabilmente ne servirebbero il quintuplo, ma questi soldi ci permettono di mettere sul tappeto alcuni tasselli del mosaico che dobbiamo costruire per rispondere all'emergenza sanitaria. Con gli aiuti alimentari arriveremo a quasi 20 mila famiglie.

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