“Anarchico, partigiano, esperantista: vi racconto chi era mio padre, Giuseppe Pinelli”
Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, 41enne sposato e padre di due figlie, moriva precipitando da una stanza al quarto piano della questura di Milano. Si trovava illegalmente in stato di fermo, essendo passati ormai tre giorni: aveva raggiunto altri suoi compagni anarchici nei locali di via Fatebenefratelli poco dopo lo scoppio della bomba alla Banca nazionale dell'agricoltura di piazza Fontana a Milano, un attentato compiuto dal gruppo eversivo neonazista veneto di Ordine nuovo che inizialmente fu attribuito, anche grazie a depistaggi e coperture di parte degli apparati dello Stato, agli anarchici. Silvia Pinelli, una delle due figlie di Giuseppe – l'altra è Claudia, sua sorella minore – aveva solo 9 anni quando, il 12 dicembre del 1969, suo padre Pino venne invitato dal commissario Luigi Calabresi a seguirlo col suo motorino nei locali della questura di Milano. Da allora Silvia non l'ha più rivisto. Cinquant'anni dopo una tragedia legata a stretto giro con la strage di piazza Fontana, Fanpage.it ha incontrato Silvia Pinelli per approfondire un aspetto legato alla morte del padre che spesso viene messo in ombra nel racconto "pubblico" della vicenda: quello del dramma famigliare, di una moglie – Licia – e di due bambine a cui strapparono il marito e il padre sulla base di accuse e sospetti rivelatisi completamente infondati.
Se dovesse spiegare a un ragazzo, oggi, chi era suo padre, cosa gli direbbe?
Gli direi che Pino era un anarchico, una staffetta partigiana, un esperantista. Probabilmente non saprebbe neanche cosa significhi il termine, ma sarebbe un modo per spiegargli che era quella lingua universale che avrebbe voluto abbattere le frontiere linguistiche e anche mentali. E poi gli direi che era un ferroviere che venne ucciso nei locali della questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969. Una sentenza dice "ucciso da un malore attivo". Ma per noi fu ucciso nel momento in cui entrò quel 12 dicembre nei locali della questura e ne uscì, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre.
Del dramma di suo padre si è molto parlato. Ma l'aspetto più intimo, più famigliare della vicenda è forse rimasto più in ombra.
Sono passati 50 anni, il rischio di questi anniversari tondi è che poi l'anno prossimo nessuno ne parli più. Della nostra vicenda se n'è parlato dopo che mio padre volò dal quarto piano della questura di Milano. Di chi fosse Pino, lo sapevano invece le persone che ci sono state vicine da subito. Lo conoscevano e l'avevano conosciuto nei vari ambienti dove Pino operava. Pino era del 1928, quando nacque era in pieno periodo fascista. Lascia la scuola a 10 anni perché doveva aiutare la famiglia, e probabilmente è stato il suo primo datore di lavoro a dargli i primi rudimenti sull'anarchia dandogli libri da leggere. Perché Pino, anche quando era giovane, quello che guadagnava lo spendeva in libri comprati sulle bancarelle. Pino diventa staffetta partigiana a 16 anni, partecipa alla lotta di Liberazione di questo Paese per renderlo migliore. Quando erano stati sfollati a Lacchiarella con la sua famiglia mio padre spariva per dei giorni, e sua madre veniva a Milano per cercarlo senza trovarlo. Dopo la Liberazione l'impegno politico di Pino continua sempre nel movimento anarchico, nel corso degli anni contribuirà a fondare vari circoli anarchici. Organizza le manifestazioni per la pace, prende contatti con i primi obiettori di coscienza contro il servizio militare, che erano cattolici. Prende contatti con i ragazzi della contestazione, i primi numeri di "Mondo Beat" vengono stampati al circolo anarchico di mio padre.
Com'era suo padre, come uomo?
Mio padre era una persona estremamente solare, tanti ci hanno detto ‘per noi era come un padre'. Come lo è stato per noi, una figura molto importante purtroppo per troppo poco tempo.
Che tipo di padre era?
Mio padre com'era fuori era in casa. Era un ottimista, anche quando c'erano delle difficoltà – perché comunque noi eravamo una famiglia povera – mio padre aveva sempre quell'entusiasmo e qualsiasi difficoltà riusciva a fartela superare. E con noi era un padre molto affettuoso.
Le viene in mente qualche ricordo in particolare?
Una volta non usava, ma mio padre andava in giro spingendo la carrozzina. Una volta ci ha accompagnate alla scuola materna, a me e mia sorella, e ci ha riportate a casa perché noi avevamo puntato i piedi e non volevamo andare. Quando mia madre lo seppe disse: "Mai più, le porto a scuola io". Oppure quando ci veniva a prendere da scuola ci portava o a giocare, a prendere un gelato o a volte è capitato, spesso anche, che andassimo con lui nell'edicola in via Orefici dell'Augusta, che era una compagna anarchica che aveva fatto la Resistenza. E mi ricordo questi pomeriggi stupendi passati all'interno dell'edicola dove potevamo leggere di tutto, perché probabilmente nostro padre ci aveva contagiato.
Ne approfittavate un po' della bontà di vostro padre…
Sì, abbastanza. E poi lui ci leggeva il Topolino e come lo leggeva lui non ce lo leggeva nessuno, perché faceva tutti i "sigh!", i "gulp!"…
Nel libro scritto col compianto giornalista Piero Scaramucci, "Una storia quasi soltanto mia", sua madre ricorda che la vostra era una casa aperta.
Era una casa proletaria la nostra, abitavamo nel quartiere di San Siro (in via Preneste, vicino a dove per il 50esimo anniversario della strage di piazza Fontana il Comune ha deciso di piantare una quercia dedicata a Giuseppe Pinelli con la targa: "Anarchico, ferroviere, partigiano, 18esima vittima innocente di piazza Fontana"). Era una casa aperta per forza, anche per il lavoro di mia mamma. Quando sono nata io si era licenziata dall'ufficio dove lavorava, batteva le tesi a macchina e quindi il lavoro lo svolgeva a casa. E dunque avevamo studenti universitari che dovevano far battere a Licia le tesi di laurea, e poi c'erano professori universitari. Insomma c'era tanta gente di tutti i tipi, e poi mio padre aveva anche questa abitudine possibilmente di invitare tutti a mangiare, perché a lui piaceva anche cucinare.
Arriva poi quel funesto 12 dicembre del 1969…
Già prima del 12 dicembre c'erano stati degli attentati attribuiti agli anarchici, alla Fiera campionaria di Milano e all'ufficio cambi della stazione Centrale. E poi nell'agosto dieci bombe su vari treni: di tutte queste bombe erano stati incolpati anarchici e alcuni erano in carcere. Nel corso degli anni abbiamo saputo che erano bombe fasciste, ma noi lo sapevamo già. Quel 12 dicembre mio padre aveva smontato dal turno di notte, era venuto a casa per riposarsi. Poi era venuto un conoscente e mentre mia madre ci veniva a prendere a scuola Pino si era messo a cucinare. Poi era uscito con questa persona ed era andato prima a giocare a carte in via Morgantini, poi era andato a ritirare la tredicesima e da lì al Ponte della Ghisolfa, che era quel circolo che avevano inaugurato l'anno prima il Primo maggio, dove scrive una lettera a Paolo Faccioli, uno degli anarchici falsamente accusati degli attentati del 25 aprile. Scrive una lettera che diventerà purtroppo il suo testamento, dove tra le altre cose dice: "Anarchia non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo neanche subirla. Anarchia è ragionamento e responsabilità". Gli dice che non gli manderà dei soldi perché la madre di Paolo non voleva, ma che gli avrebbe mandato un libro, il suo libro preferito: "L'Antologia di Spoon River", primo libro che Licia regalò a Pino quando si conobbero (avvenne proprio a un corso di esperanto, ndr). Da lì va al circolo Scaldasole, c'è la polizia che sta perquisendo i locali. Quelli che sono lì vengono portati in questura, e Pino verrà invitato dal commissario Calabresi a seguire la volante con il suo motorino in questura. Cosa che Pino fece. Da quella questura ne uscirà, dopo che il fermo era diventato illegale, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969.
Cosa si ricorda lei di quel 12 dicembre?
Quel 12 dicembre alle ore 20 io e Claudia stavamo rientrando a casa, la porta era spalancata e c'erano tante carte per terra. Io mi bloccai sulla porta, Claudia fece per entrare e andare incontro alle persone che erano presenti e venne bloccata da mia mamma. Le disse: "Guarda, è la polizia e sta perquisendo l'appartamento". La casa era molto piccola. Tirarono fuori i regali di Natale che i nostri genitori ci avevano già preparato, li scartarono e li buttarono per terra. E poi finalmente se ne andarono. Mia madre si mise a riordinare e ci disse che nostro padre era in questura, che gli avrebbero probabilmente fatto prendere un bello "spaghetto" e però poi sarebbe tornato a casa. Mia sorella chiese cosa voleva dire "prendere un bello spaghetto" perché era la prima volta che sentiva questo termine. "Gli faranno prendere uno spavento", le spiegò mia madre. Quella sera ci lesse lei il Topolino, ricordo che stavamo rispondendo a delle domande. A una non riuscivamo a rispondere e abbiamo detto: ‘Poi domani quando torna il papà ci risponderà lui, lui lo sa".
Quella domanda è rimasta e rimane tutt'ora senza risposta, da 50 anni. Cinquant'anni dopo, come ricordano la doppia targa che è tutt'ora in piazza Fontana a Milano, non c'è ancora una verità sulla morte di suo padre. Da figlia e da cittadina, come giudica uno Stato che mezzo secolo dopo non è ancora riuscito a fare i conti col suo passato? E continua a sperare che, prima o poi, le due targhe di piazza Fontana diventeranno solo una?
È una bella domanda, e ricorre spesso anche quando vado a parlare nelle scuole. La targa spiega le contraddizioni che ci sono in questo Paese, una verità che non si è voluta accertare: non si sono volute accertare le responsabilità di chi aveva responsabilità. Non mi riferisco solo alla vicenda di Pino, ma a tutte le stragi che ci sono state in Italia. Anche piazza Fontana non ha avuto una risposta. I famigliari vennero condannati, come Licia, al pagamento delle spese processuali. Non si può non avere fiducia nello Stato, nello Stato visto come Stato di diritto, dove tutti i cittadini sono egualmente soggetti alla legge. Però penso che bisogna fare ancora tanta strada per arrivare effettivamente a uno Stato di diritto. Ci sono stati anche nelle istituzioni magistrati che hanno lavorato seriamente, anche nella nostra vicenda la prima istruttoria venne data al giudice Paolillo che era un giudice democratico e gli venne tolta immediatamente. Credo che bisogna continuare a raccontare, perché è l'unico modo per cambiare il volto di questo Paese.
Sua madre, sempre nel già citato libro, diceva: "È successo a Pino perché era un anarchico, domani può succedere a qualsiasi altro, non importa se fa politica, se ha idee politiche, anche se è senza fede politica… Se la gente riuscisse a capire questo. Perché c'è sempre bisogno di un capro espiatorio quando non si vogliono scoprire i colpevoli e il capro espiatorio diventa il mostro".
Quando vado nelle scuole, ma anche quando parlo con i ragazzi, quello che mi auspico che poi facciano è di non basarsi sulle opinioni altrui, ma di basarsi sui fatti per farsi un'opinione propria. E questo è fondamentale. Nel '69 si mosse la società civile: non so, se quello che è successo nel '69 si verificasse adesso, quale sarebbe la risposta del Paese, a volte ho delle perplessità. Noi sappiamo che dopo la bomba del 12 dicembre pensavano di fare un colpo di Stato il 14 dicembre. Sappiamo che il sindacato si chiuse tre giorni per decidere che cosa fare per il 15 dicembre, per i funerali: e poi proclamarono lo sciopero generale e chiesero che non si andasse con nessuna bandiera. Con la morte di Pino ci fu qualcosa che smosse anche la coscienza di tanti: i primi che arrivarono a suonare alla nostra porta per dirci che nostro padre era al Fatebenefratelli furono dei giornalisti: come la Camilla Cederna e Corrado Stajano. La Cederna si occupava di tutt'altro in quel periodo. Fu la vicenda di Pino che le fece aprire gli occhi su tante cose che accadevano in Italia. Altri giornalisti coraggiosi ci furono in quel periodo: ci fu una campagna stampa becera, però ci furono anche dei giornali che non si basarono sulle veline che arrivarono dalla questura e cominciarono a indagare.
E oggi?
C'è questo problema che con internet diventa tutto più veloce, e quindi una notizia falsa si espande. Può succedere a tutti, anche a me di prendere una notizia e pensare che sia vera. L'unica cosa è vedere da dove arriva e documentarsi. Adesso è tutto molto veloce che non ci si ferma a pensare, è quello il problema.
Nei momenti successivi alla tragedia, mentre era in corso la campagna becera di cui ha parlato, vostra madre cercò di proteggervi da tutto il clamore.
Appena è successo, il 16 dicembre, noi andammo prima a casa della sorella di Pino e poi venne un fratello di Licia a prenderci e ci portò a Padova, a casa sua. Mia madre cercò sempre di tenerci lontane, per quanto potesse, di proteggerci e di non farci pesare tutto quello, oltre alla perdita di nostro padre, che lei ha dovuto sopportare. Però ha conservato tutto: la sera si metteva a ritagliare gli articoli di giornali che apparivano e ha tenuto tutto, in modo che anche noi poi nel corso degli anni potessimo vedere. Le telefonate anonime però le abbiamo prese anche noi, soprattutto quando venne ammazzato Calabresi (il 17 maggio 1972, ndr), e lì eravamo già più grandi. Nostra madre ha sempre cercato di proteggerci e di non farci sapere cos'è successo, ma noi anche nei vari trasferimenti con le scuola a un certo punto ci ritrovammo alla casa del Trotter dove c'era questo pullman che ci accompagnava a scuola. E i primi giorni di scuola c'erano i giornalisti che ci aspettavano sempre alla fermata del pullman. E poi si attraversava Milano per arrivare in via Giacosa da San Siro: e i muri parlavano. I muri hanno iniziato a parlare, quindi per quanto mia madre abbia tentato di non farci pesare eravamo già diventate grandi a nove anni, quando uno smette di credere a Babbo Natale.
Vi hanno rubato il Natale, così come il papà. C'è stato un momento preciso in cui hai deciso di volerti informare, in maniera più consapevole, su quanto successo a tuo padre?
L'abbiamo sempre fatto, ma cercando di non chiedere a Licia. Poi nel '75 avevamo 15 e 14 anni quando ci fu la sentenza del giudice Gerardo D'Ambrosio (quella che stabilì come causa "verosimile" del decesso di Pinelli un malore, ndr) e poi comunque ascoltavamo anche i discorsi in casa, nonostante facessimo finta di niente. Non chiedevamo a nostra mamma sempre per quella forma di pudore, per non riaprire una ferita che non si è mai chiusa: però le cose le sapevamo. Quando Licia poi ci ha passato il testimone, a me e a mia sorella, per noi è stato un tornare indietro a quando accadde tutto.
Cinquant'anni dopo la morte di suo padre il Comune di Milano ha deciso di intitolare una targa a Pinelli e di piantare un albero vicino alla casa di via Preneste.
Nel gennaio del '70 i socialisti milanesi – primo firmatario fu il sindaco di allora, Aldo Aniasi – scrissero una lettera dove chiedevano che venisse fatta luce sulla vicenda di Pino. Abbiamo avuto delle amministrazioni degne di una città medaglia d'oro della Resistenza. Adesso dopo 50 anni, viene piantato un albero: è un segno e un simbolo bellissimo, perché l'albero accoglie e dà vita. Con questo cippo che ricorda Pino non solo come 18esima vittima della strage di piazza Fontana, ma anche per quello che è stato: come partigiano, come anarchico, come ferroviere. Trovo che sia un gesto che noi come famiglia abbiamo apprezzato moltissimo, è equiparabile a quello che arrivò dopo 40 anni da parte del Presidente della Repubblica (allora Giorgio Napolitano, oggi Presidente emerito, ndr), che riconobbe Pino come vittima innocente, prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un'improvvisa e assurda fine.
"Vittima due volte", lo definì Giorgio Napolitano. Che ricordi ha di quando portaste le spoglie di suo padre nel cimitero di Carrara?
Lì eravamo già più grandi, perché erano scaduti già dieci anni dalla sepoltura e quindi Pino sarebbe dovuto finire nell'ossario. E mia madre ebbe come un senso di oppressione e pensò a Carrara, perché Pino era molto legato alla città anche per i movimenti anarchici carraresi, persone serie che avevano fatto la Guerra di Spagna e la Resistenza, o che erano stati confinati nei vari luoghi dove rinchiudevano gli anarchici. Si decise di portarlo a Carrara, il Comune dette subito l'autorizzazione e quando arrivammo c'erano i compagni di Pino che ci aspettavano. Alla fine della cerimonia intonarono "Addio Lugano bella", e quella fu probabilmente l'unica volta in cui anche Licia si lasciò andare.
Sulla lapide di suo padre compare uno dei brani dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, l'Epitaffio di Carl Hamblin.
La lapide era quella che si trovava a Milano. Pensi che venne bloccata quando doveva arrivare, i funerali si svolsero il 20 dicembre e la lapide avrebbe dovuto essere messa nel giro di una quindicina di giorni perché era arrivata da Carrara e fu bloccata dalla polizia per tre mesi, anche questa. La scritta sulla lapide parla della giustizia ed è questa poesia tratta dall'Antologia di Spoon River, libro che Pino amava.
La macchina del "Clarion" di Spoon River venne distrutta
e io incatramato e impiumato,
per aver pubblicato questo il giorno che gli Anarchici
furono impiccati a Chicago:
"Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
Una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto il volto implorante.
Nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava di ritrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia;
nella bilancia venivano gettate monete d'oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
"Non guarda in faccia a nessuno."
Poi un giovane col berretto rosso
balzò al suo fianco e le strappò la benda.
Ecco, le ciglia erano tutte corrose
sulle palpebre marce;
le pupille bruciate da un muco latteo;
la follia di un'anima morente
le era scritta sul volto.
Ma la folla vide perché portava la benda".
(Ha collaborato Simone Giancristofaro)