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A Milano non serve “tornare al lavoro”, ma superare un modello basato su pendolari e affitti d’oro

Beppe Sala ha invitato tutti a “tornare al lavoro” e chiudere la parentesi dello smart working, che ha permesso di difendere Milano dal dilagare incontrollato del coronavirus. Il sindaco è spaventato dal danno economico provocato dall’assenza di oltre un milione di persone che arrivavano ogni giorno in città prima della crisi. Ma per la Lombardia è ora di superare il modello basato su pendolari, city user e lavoratori fuori sede che pagano affitti d’oro. Proporre di tornare indietro è miope e anacronistico.
A cura di Simone Gorla
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"È ora di tornare al lavoro". Le perentorie parole del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, pronunciate in un video messaggio su Facebook, hanno riaperto il dibattito sullo smart working. Per mesi il telelavoro è stato la salvezza del capoluogo lombardo, uno strumento di vitale importanza che ha permesso di scongiurare il dilagare dell'epidemia nella metropoli senza fermare il lavoro di uffici e aziende.

Il tema è controverso. Per qualcuno si è consumato un passaggio epocale verso un nuovo modo di intendere il lavoro, in cui la libertà di organizzare la propria vita e non essere vincolati all'ufficio porterà benefici ai dipendenti, alle aziende, ai trasporti e all'ambiente. Dall'altra parte c'è chi sottolinea come il lavoro da casa, soprattutto quando non è davvero "smart", rischia di avere conseguenze negative, tra cui senso di isolamento, peggioramento delle relazioni sociali e dei rapporti con i colleghi, maggiore carico di lavoro senza orari.

Ma non è per questo che il primo cittadino di Milano ha sancito che lo smart working ora deve finire. Alla base del suo ragionamento, come lui stesso ha spiegato, c'è il timore delle conseguenze della crisi sulla città di Milano. Un'importante fetta dell'economia cittadina si basa sui "city user", i consumatori metropolitani, individui, non residenti, che si recano nel capoluogo per utilizzare servizi pubblici e privati. Si tratta in larga parte di pendolari, ma anche di persone attratte in città da esigenze ricreative, culturali e commerciali (turisti, frequentatori di centri commerciali e locali notturni).

Prima della crisi ogni giorno oltre un milione di persone arrivava a Milano per lavoro o per altri motivi, raddoppiando di fatto la popolazione residente. Un'invasione giornaliera di cui beneficiavano ristoranti e bar aperti a pranzo, negozi, edicole e servizi di ogni tipo. Le spese giornaliere dei pendolari sono un asset fondamentale per l'economia cittadina, così come le stanze e gli appartamenti presi in affitto a prezzi fuori mercato da lavoratori e studenti universitari fuori sede.

Il pendolarismo su Milano rappresenta ancora una necessità per buona parte dei lombardi. Dai centri al confine con la Svizzera ai paesi della bassa lodigiana, ogni giorno centinaia di migliaia di persone prendono il treno o la macchina per recarsi al lavoro nel capoluogo. Un modello vecchio di un secolo, che non favorisce l'ambiente e in molti casi nemmeno la qualità della vita, ma arricchisce Milano. Provare a ripensarlo, sfruttando l'occasione offerta dagli effetti della pandemia, sarebbe (stata) una buona idea. Per questo la marcia indietro del sindaco, che richiama tutti in ufficio, suona come un tentativo miope e anacronistico di tornare al passato.

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