Amici e fidanzati, le coppie di assassini col cadavere nel trolley: i precedenti a Milano
Cappellini, polo colorate, pantaloni corti di jeans e due piccoli trolley. Il filmato della telecamera della stazione di Lodi restituisce l’immagine di due ragazzi qualunque che si guardano attorno con la perplessità dei turisti. Nessuno avrebbe potuto sospettare che nei loro bagagli, spinti senza fatica grazie alle ruote ben oliate, ci fosse un uomo smembrato: da una parte testa e viscere, dall’altra tronco, braccia e gambe.
Il corpo del professor Adriano Manesco, 78 anni, venne trovato il 7 agosto 2014 in un cassonetto della spazzatura davanti a quella stazione ma era stato ucciso qualche ora prima a Milano, nel suo appartamento in via Settembrini 41, a pochi passi da un’altra stazione.
Per quella morte sono stati condannati all’ergastolo Paolo Grassi, 36 anni, e Gianluca Civardi, 35, entrambi piacentini, amici da tempo, uniti dal sogno di aprire un’agenzia di viaggi con sede a Bangkok. Per anni era rimasta una promessa da fine serata, come l’idea di tutti di aprire il bar sulla spiaggia in Brasile. Poi avevano conosciuto il professore in un ristorante cinese in via Lepetit, lo stesso locale che il docente in pensione frequentava ogni sabato, rispettando un rigido rituale settimanale. Era andato in pensione nel 1990, per 15 anni aveva insegnato filosofia all’università di Taiwan, una fortunata coincidenza per i due amici in cerca di un finanziatore e di un esperto di Asia.
Era nata una simpatia, poi un’amicizia “particolare” sui cui dettagli morbosi gli investigatori hanno sempre preferito sorvolare. Ma è stato in virtù di quel rapporto che i due uomini sono riusciti a entrare nell’intimità del 78enne, che aveva iniziato a versare sulle loro carte di credito parte della sua pensione. In un anno circa 10mila euro.
Prima della sua esperienza in Asia era stato correttore di bozze al quotidiano “Il Giorno”, prima ancora compagno di scuola di Silvio Berlusconi al liceo classico dei salesiani di via Copernico ma era così schivo da essere l’unico a non partecipare mai alle rimpatriate.
Grassi e Civardi sapevano che non aveva contatti quotidiani con famigliari né altri amici, una condizione perfetta per il loro piano.
Il 7 agosto trascorrono il pomeriggio assieme, lo immobilizzano, riescono ad estorcergli i codici d’accesso al suo conto corrente e tentano di strangolarlo. Ma non ci riescono. In preda al raptus, sapendo di aver già superato il punto di non ritorno, lo ammazzano con una ventina di colpi di forbici. Sul referto si parla di «plurime lesioni da punta e da taglio al torace e al capo» fino alla perforazione dei bulbi oculari. A quel punto inizia il piano per liberarsi del corpo.
«C’è stato lo smembramento, con una profusione di sangue sicuramente importante in tutto l’appartamento. Un’azione tesa da un lato a non permettere l’eventuale riconoscimento della vittima attraverso la decapitazione e l’abrasione dei polpastrelli per cancellare le impronte digitali – spiegò il sostituto procuratore della procura di Piacenza, Antonio Colonna – La vittima è stata anche eviscerata. Questo avrebbe permesso di rallentare il processo di putrefazione del cadavere (la decomposizione inizia proprio dagli organi interni, ndr) e quindi avrebbe ritardato sicuramente di molti giorni l’eventuale ritrovamento, e quindi anche le indagini».
I due amici infilano tutto nei due trolley e partono in auto per Lodi. Alle 22.30 vengono immortalati dalle telecamere della stazione con i bagagli che poi buttano in un cassonetto vicino. Si rimettono alla guida e raggiungono Piacenza, dove all’1.30 una donna li vede dalla finestra mentre, accanto a un bidone in via Nasalli Rocca, si stanno liberando dei vestiti sporchi di sangue. Gli agenti arrivano pochi minuti dopo, trovano in auto un telo di plastica, coltelli, un tase, passamontagna, una pistola giocattolo e il computer portatile di Manesco con le chiavette per l’home banking.
Il loro piano perfetto è infranto da una donna insonne che ha chiamato il 113.
Sono di nuovo le telecamere, stavolta dello stazionamento dei taxi, a incastrare un’altra coppia di assassini: Rajeshwar Singh, portiere di notte di 29 anni, e la sua fidanzata Gagandeep Kaur, cameriera di 30. Entrambi indiani. Il 27 gennaio 2015 la ragazza uccide la loro coinquilina nell’appartamento che condividevano in via privata Pericle 5, una traversa di viale Monza, il 29enne l'aiuta a sbarazzarsi del corpo.
Mahtab Savoji aveva 29 anni, era una costumista iraniana che frequentava l’accademia di Brera per un master. Il giorno dell’omicidio avrebbe dovuto lasciare la casa perché i rapporti erano diventati insostenibili.
I due fidanzati la strangolano, la infilano di forza in un grosso trolley e viaggiano con il cadavere per ore. Ma non in auto, come gli amici piacentini, gli indiani non avevano né patente né macchina, così sono costretti a utilizzare il treno.
Si fermano prima a Lecco, dove rinunciano all’idea di gettare il corpo nel lago perché «c’era troppa gente in giro», poi tornano a Milano per prendere la coincidenza per Venezia, dove aprono il bagaglio lasciando il cadavere al suo destino nel Lido. Speravano che andasse a fondo sparendo per sempre, non immaginavano che sarebbe stato scoperto meno di un giorno dopo. Riaffora dall’acqua il suo corpo completamente nudo, con una catenina d’oro come unico elemento. Una telecamera di piazzale Roma li filma mentre salgono su un taxi che li accompagna a Milano per 500 euro. Durante il viaggio, raccontò il tassista, conversano e dormono.
«L’indiano aveva con sé solo 50 euro, ma mi ha garantito che avrebbe pagato l’intera somma appena giunti a Milano – disse il testimone -. Erano tranquilli, hanno parlottato nella loro lingua. Poi, giunti nei pressi di Vicenza, si sono addormentati fino all’arrivo a Milano alle 2.30. Dovevo raggiungere la stazione Centrale, ma l’indiano mi ha fatto fermare in piazzale Loreto perché doveva prelevare al bancomat. È sceso dal taxi, lasciando la donna in auto. Poi è tornato dandomi 500 euro in banconote da 50 nuove, prima di congedarsi assieme alla ragazza».
I due fidanzati si presentano in questura l’indomani, dicono che la coinquilina era stata male dopo una serata a base di alcol e ammettono solo di aver nascosto il corpo. Una versione definitivamente smentita dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano, che nel febbraio 2016 condanna la cameriera a 10 anni (il rito abbreviato le consentì di ridurre i 17 anni del primo grado) e il portiere 29enne, a cui è stato contestato solo l’occultamento del cadavere, a soli 8 mesi con la condizionale. È stato espulso dal Paese, al momento è in India.
Secondo il gup la «gelosia ossessiva della Kaur è pacifica in questa vicenda, tanto da essere considerata in movente che ha spinto l’imputata ad agire». Secondo la ricostruzione l’avrebbe uccisa dopo aver scoperto un presunto tradimento mai confermato dalle indagini. Va detto che i tre vivevano nella stessa stanza, l’iraniana pagava 200 euro al mese per un letto singolo accanto al divano-letto matrimoniale.
Kaur, di ritorno dal bagno, «ha trovato il fidanzato e la Mahtab completamente nudi nello stesso letto matrimoniale, in cui lei aveva appena lasciato il solo fidanzato con slip e maglietta».
L’ha soffocata con la collana a cui era appeso un piccolo ciondolo indiano, un raptus a cui segue un piano preciso. Il cadavere resta per circa 9 ore in posizione fetale prima di entrare nella valigia e iniziare il suo ultimo viaggio.
Prima di tre fratelli, Mahtab si era laureata in Cinema a Teheran ed era arrivata a Milano nel 2012 per specializzarsi all’Accademia delle Belle Arti di Brera in Costume per lo Spettacolo. La sua famiglia aveva fatto grossi sacrifici per consentirle il trasferimento in Italia ma negli ultimi tempi la ragazza aveva deciso di limitare al massimo le spese. Due mesi prima di morire aveva lasciato l’appartamento che condivideva con tre amiche iraniane in zona Melchiorre Gioia per trasferirsi nella stanza dei fidanzati. Non stava bene con loro, troppi litigi e strane allusioni sessuali, a un’amica aveva confessato di voler fuggire da lì.