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Covid 19

La denuncia di Fabrizio: “Mia madre è morta di covid e devo decidere da solo se stare in quarantena”

“Siamo stati abbandonati a noi stessi, con la strana idea di farci un’autodiagnosi per capire se potevamo uscire della quarantena”. Lo ha raccontato a Fanpage.it Fabrizio Faraoni, 45 anni, napoletano residente da molti anni a Milano. Sua madre, 75enne immunodepressa, si è ammalata di covid-19 ed è deceduta pochi giorni dopo il ricovero all’ospedale San Carlo. Da allora per lui e la sua famiglia è iniziato un calvario. Pur avendo i sintomi del coronavirus, a nessuno è stato fatto il tampone. Sono rimasti chiusi in casa per due settimane in isolamento. Al termine del periodo di quarantena, quando hanno chiesto informazioni, è arrivata la strana risposta: “Fatevi un’autodiagnosi e calcolate altre due settimane dall’ultimo giorno senza febbre. Mi sembra un’indicazione pericolosissima, così non usciremo mai dal contagio”.
A cura di Simone Gorla
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"Dopo tre settimane di inferno, dopo aver perso nostra madre, sappiamo solo che dobbiamo restare in casa. Siamo stati abbandonati a noi stessi". Fabrizio Faraoni, 45 anni, napoletano residente da molti anni a Milano, ha raccontato a Fanpage.it l'esperienza della sua famiglia travolta dal dramma coronavirus e rimasta isolata, senza informazioni certe, costretta ad aggrapparsi solo al proprio senso di responsabilità.

Dopo la scomparsa della madre, deceduta a 75 anni all'ospedale San Carlo dove era ricoverata da una decina di giorni con i sintomi del covid-19, Fabrizio, suo fratello e le rispettive compagne hanno accusato a loro volta febbre, tosse, nausea e perdita di gusto e olfatto. È stato detto loro di rimanere in quarantena per due settimane. Alla scadenza delle quali, nessuno ha saputo dire loro cosa fare. "L'Ats mi ha detto che dopo 14 giorni potevo considerarmi libero di uscire. Alla mia compagna e a mio fratello, anche loro in quarantena, è arrivata una comunicazione dall'Ats che indicava di farsi autodiagnosi, in sostanza di stabilire da soli se i sintomi sono passati e si può riprendere la vita normale. Questo senza aver mai fatto il tampone e senza la certezza di essere guariti. Mi sembra un'indicazione pericolosissima, così non usciremo mai dal contagio".

La storia della famiglia di Fabrizio è simile, nella sua drammaticità, a quella di altre migliaia in Lombardia. È fatta di sintomi, incertezze, mancanza di risposte. Poi una situazione che precipita, mentre alla paura della malattia si somma quella di sentirsi abbandonati.

"Vivo a Milano da 12 anni, mia madre stava da me da circa un anno. Si è dovuta sottoporre a cure oncologiche e per questo era immunodepressa. Il 10 marzo, visto che aveva una febbre che durava da un po’ di giorni, abbiamo chiamato il 112. Sono arrivati bardati e con le mascherine, l'hanno visitata brevemente e dopo pochi minuti si sono tolti le protezioni. Non ritenevano ci fossero grossi problemi, anche se i suoi valori di ossigenazione erano a 90. Ci hanno detto che era una normale influenza, che non c’era pericolo. Si sono presi il caffè con noi e se ne sono andati".

Ma la febbre non è passata e le condizioni della donna sono peggiorate nell'arco di tre giorni. "Venerdì 13 aveva difficoltà ad alzarsi dal letto. La saturazione era attorno ai 70. Ho richiamato il 112. Questa volta sono arrivati con le protezioni e l'hanno portata via d’urgenza", ricorda Fabrizio. Da quel momento è iniziato un calvario fatto di silenzio, paura e mancanza di informazioni. "Ci hanno detto che la portavano al San Carlo, poi per 48 ore non abbiamo saputo più niente delle sue condizioni. Eravamo consapevoli che il sistema sanitario era al collasso e quindi non ci siamo arrabbiati più di tanto, capivamo che gli operatori avevano altre priorità".

Il lunedì successivo le prime notizie: "Siamo finalmente riusciti a comunicare con lei in video chiamata, anche se era sotto il casco". Passano altri giorni, l'ultimo contatto è il 21 marzo. "Poi la situazione è peggiorata, non riusciva più a rispondere al telefono. Il 23 un’infermiera gentilmente ha risposto a una videochiamata e ce l'ha fatta vedere per l’ultima volta. La notte del 24 se n’è andata".

È a questo punto che inizia un secondo incubo, quello della quarantena: "Quando è arrivato l'esito del tampone di nostra madre, quasi una settimana dopo il ricovero, abbiamo contattato l'Ats. Ci sono voluti due giorni per prendere la linea – racconta Fabrizio – Ci hanno detto che non sarebbero venuti a farci il tampone, ma di rimanere chiusi in casa per 14 giorni. Intanto avevamo tutti e quattro i sintomi".

"Ci hanno spiegato che dovevamo considerare 14 giorni dall’ultimo contatto con il paziente positivo. Quindi il 27 finiva la quarantena. Sarei potuto andare in giro senza problemi. Solo per scrupolo mi sono attaccato al telefono e ho chiesto ragguagli. Il mio medico di base era anche lui positivo, anche lui non rispondeva più. Da Ats mi hanno detto che finito l'isolamento mi potevo ritenere libero. Ma a quel punto ancora non avevo recuperato gusto e olfatto, ho preferito non uscire di casa. Da allora fino al 31 marzo non ho avuto nessuna comunicazione. Quando finalmente sono riuscito a parlarci, una dottoressa in sostituzione mi ha detto che anche con un solo sintomo dovevo restare in quarantena altre due settimane. Intanto a mio fratello e alla mia compagna è arrivato un sms che raccomandava di rimanere a domicilio, farsi un'autodiagnosi e calcolare altre due settimane dall'ultimo giorno senza febbre.

Informazioni confuse, contraddittorie e anche pericolose. "Siamo stati abbandonati a noi stessi, con questa strana idea dell’autodiagnosi – osserva Fabrizio – e mi terrorizza l’idea che abbiano dato questa indicazione agli altri. Non tutti sono attenti, qualcuno ancora positivo potrebbe essere uscito. Ho la percezione del fatto che organi preposti siano allo sbando. Gli operatori mi sono parsi generosi, ma in enorme difficoltà. E, lo ammetto, ho sospettato che nel caso di mia madre non siano riusciti a fare il massimo".

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