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Don Virginio Colmegna e la pandemia: “Una lezione per Milano, ci siamo scoperti più poveri e soli”

“Per Milano è stata una bella lezione. La Milano del futuro, dell’Expo, dell’avanzata ora deve fare i conti con una nuova quotidianità. Ci sarà un aumento della povertà, del problema della casa, di chi non arriva a fine mese”. Don Virginio Colmegna, storico prete delle periferie milanesi, fondatore della Casa della Carità, da mezzo secolo lavora accanto alle persone più fragili e marginali. Ha vissuto la pandemia in quarantena, nel suo studio, con lo sguardo persone più deboli. In un’intervista a Fanpage.it ha raccontato le sue riflessioni e preoccupazioni. “Abbiamo scoperto che questo è un Paese dove il problema della salute tocca tutti. Ora serve grande coesione, ma non c’è fase due su questo”.
A cura di Simone Gorla
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“Quando è scoppiata la pandemia i miei operatori hanno blindato anche me. Mi hanno detto di stare in casa, visto che a 75 anni sono in un'età a rischio. Così mi sono trovato nel mio studio e ho dovuto accompagnare da qui il cammino della Casa della Carità. In questi giorni di quarantena mi sono chiesto che senso avesse tutto ciò che stava succedendo". Don Virginio Colmegna, storico prete delle periferie milanesi, fondatore della Casa della Carità, da mezzo secolo lavora accanto ai più fragili e marginali: poveri e migranti, carcerati e malati, tossicodipendenti e famiglie rom. Ha vissuto l'ondata del coronavirus che ha travolto la Lombardia e Milano dalla quarantena, ma con lo sguardo rivolto ai più deboli. In un'intervista a Fanpage.it ha raccontato le sue preoccupazioni e le riflessioni, che ha raccolto in un diario intitolato "Oltre cinquanta gradini".

Cosa è successo all'interno della Casa della Carità con l'arrivo della pandemia?

La pandemia prima ci ha portato a rinunciare a una serie di servizi: le docce sono state chiuse, i servizi esterni sono stati cancellati, l'ascolto è rimasto solo telefonico. Abbiamo lasciato solo le prese fuori dalla Casa per quelli che sono in strada e hanno bisogno di ricaricare il telefonino. Poi c'è stato il problema del contagio. Noi avevamo 144 ospiti tra cui famiglie e donne con bambini. Più di cinquanta persone passate dai servizi psichiatrici. Abbiamo senza dimora italiani e stranieri, migranti senza permesso di soggiorno, richiedenti asilo. Non è stato semplice gestire la situazione.

Vi hanno fatto i tamponi?

All'inizio non c'erano i tamponi, o meglio sembrava ci fossero solo in caso di episodi clamorosi. Io ho cominciato a protestare e siamo riusciti in qualche modo, un po' all'italiana, a farli a tutti. Così è venuta fuori la situazione: 27 ospiti erano positivi, anche se asintomatici. Quello è stato un momento di grande tensione, di fatica. Abbiamo dovuto riorganizzare tutto. Al di là di cura, della prevenzione e delle mascherine. Dopo molte insistenze abbiamo ottenuto che Ats venisse a fare i tamponi di controllo, tutti tranne due erano diventati negativi.

Come ci ha cambiati la pandemia?

Il mondo non sarà più come prima. Adesso pare che si stia riprendendo come se niente fosse: il consumo riprende, quasi che il virus sia stato un incidente di percorso. Ma questa pandemia non è solo un tunnel di cui si vede il fondo, bisogna imboccare in fretta la via d'uscita laterale, altrimenti si riprende come prima in un mondo che adesso rischia di essere chiuso in se stesso, inacidito.

Nel diario scrive che il virus non ha colpito tutti allo stesso modo.

Il virus ha colpito le persone anziane e quelle segnate da patologie. Abbiamo scoperto che questo è un Paese dove il problema della salute tocca tutti. Il Covid ha lasciato delle tracce non solo di morte, ma di grande denuncia delle solitudini, della crisi delle relazioni familiari per cui un anziano diventa un problema. Abbiamo intravisto quanta fragilità ci sia, quanti anziani e malati nelle Rsa. Quante persone mi hanno telefonato, famiglia in difficoltà, con figli che soffrono di disabilità, di problemi psichici. Hanno detto “state a casa”, come se tutte le case fossero grandi, luoghi dove si poteva suonare, cantare e stare bene. Ci sono persone che vivono in monolocali, in spazi ristrettissimi, loro non ce la facevano più.

Milano si è riscoperta fragile e imperfetta?

Per Milano è stata una bella lezione. La Milano del futuro, dell'Expo, dell'avanzata ora deve fare i conti con una nuova quotidianità. Questa emergenza fa capire che le politiche sociali devono essere all'altezza delle sfide.

La situazioni di povertà sono in aumento?

Sarà un dramma. Ci sarà un aumento della povertà, del problema della casa, di chi non arriva a fine mese.  Il tema del lavoro diventerà drammatico, aumentano le persone che non sanno come fare e dove andare. Servono politiche innovative per non far diventare il rancore una ribellione, per non lasciare spazio agli investimenti della criminalità, penso al dramma dell'usura, per contrastare il sentimento di abbandono e solitudine, l'insorgere di malattie psichiche. Abbiamo bisogno di coesione sociale.

Come potremo uscirne migliori?

Oggi vedo la politica con la p minuscola, vecchia, che tarda a capire che serve una grande rivoluzione culturale. Per grandi scelte di giustizia sociale serve il coraggio di una Politica con la P maiuscola. Il mio scossone lo do anche agli imprenditori. C'è chi ha guadagnato ed è ancora più ricco. Possibile che non avvertano che sul piano culturale bisogna fare un salto di qualità? Non c'è fase due su questo. Sono molto preoccupato.

Perché?

Non l'abbiamo scampata. È venuto fuori il dramma di un Paese che ha grandi carrozzoni con persone abbandonate e dimenticate, basta vedere cosa è successo al Trivulzio. Dovrebbe aprirsi una riflessione che coinvolge tutti eppure non sta avvenendo. Anzi, ora sembra che basti mettere la mascherina per risolvere tutto e tornare alla vita di prima.

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