Coronavirus, la prima notte di controlli in strada agli automobilisti che circolano a Milano
Sembra un normale controllo di routine, un posto di blocco come tanti. Ma in questi giorni di emergenza Coronavirus non c’è nulla di normale, neppure un agente con la paletta che fa segno di accostare. Sono le 21.30 di lunedì e le volanti partono dalla questura per la prima serata di controlli agli automobilisti che transitano a Milano. L’ordinanza è chiara, le persone fermate dovranno esibire “documenti che comprovino la necessità di salute, lavoro, situazioni di necessità oppure auto certificare queste esigenze”.
Il modulo da compilare
Per venire incontro ai cittadini sono i poliziotti a fornire il modulo prestampato da compilare. Ci sono quattro voci: comprovate esigenze lavorative; situazioni di necessità; motivi di salute; rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Come si fa a dimostrare di essere appena tornati da lavoro? O di dover raggiungere casa dei genitori anziani? Difficile se non impossibile. Eppure nel provvedimento c’è scritto che chiunque dovesse essere sorpreso a mentire, sarà punito dall’articolo 650 del Codice Penale, che prevede una pena fino a 3 mesi di reclusione o un’ammenda di 206 euro. L’ordinanza precisa inoltre che “la veridicità delle dichiarazioni rese sarà oggetto di verifica ex post, anche con modalità a campione, con le conseguenti contestazioni pena in caso le stesse risultino mendaci”. Altra domanda. Come possono scoprire che ho mentito? La risposta è la stessa di poche righe fa: difficile se non impossibile.
Check point mobili in una città deserta
Seguiamo la squadra delle volanti dal cortile della questura in via Fatebenefratelli alla sua destinazione in via Rombon, in zona Lambrate, a pochi metri dall’uscita della strada provinciale 103. In meno di un’ora gli agenti fermano 4 automobilisti che reagiscono senza proteste all’inedito controllo. Sarà l’ora, sarà il clima generale, sta di fatto che tutti appaiono frastornati. “È un’iniziativa giusta, è importante controllare il movimento delle persone – dice un signore di circa 50 anni che ha terminato da poco il suo turno in una multinazionale a San Donato Milanese e sta rientrando a casa – Però finché in ufficio non mi dicono di restare a casa continuo a fare avanti e indietro”.
Ci sono altri “checkpoint mobili” in giro per la città. In una Milano insolitamente sgombera le luci blu dei lampeggianti sono visibili da due chilometri. Se all’inizio dell’emergenza resisteva una buona dose di menefreghismo e superficialità rispetto alle norme stringenti, col passare dei giorni sembra che anche i più integerrimi bastian contrari si stiano arrendendo all’evidenza della situazione e all’invito che praticamente chiunque abbia un social sta ripetendo: “State a casa”.
Irriducibili strette di mano
C’è un altro punto che fatica a essere compreso: non bisogna dare la mano. I vari saluti nati per necessità (darsi il gomito, fare piedino, inchinarsi alla orientale, dirsi “uè tutto bene”) non riescono a vincere l’abitudine italiana. La cosa più assurda è che fatica a entrare nella testa proprio agli addetti ai lavori, a chi dovrebbe ormai conoscere meglio di tutti la procedura e gli eventuali rischi di contagio. Giornalisti, professionisti dell’informazione di qualunque natura, rappresentanti delle forze dell’ordine di ogni grado e colore, perfino medici e infermieri, continuano a farsi avanti con la mano tesa. Nonostante appartengano alle categorie più esposte e maggiormente in movimento. Ma siamo ai primi giorni di quarantena, forse capiranno anche loro.