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Covid 19

L’odissea di Cesare, ancora positivo dopo otto tamponi: “Lasciato solo nella lotta contro il virus”

Due mesi di malattia e otto tamponi, tutti positivi. Cesare Di Feo, impiegato 24enne di Soresina (Cremona) a pochi chilometri dell’epicentro del focolaio lodigiano del coronavirus, vive isolato in casa da otto settimane. Ha raccontato a Fanpage.it la sua odissea tra chiamate a 112 e numeri verdi, viaggi in ospedale, informazioni confuse e solitudine. “Ora mi hanno detto di decidere con il mio medico se devo fare un nuovo tampone o no. Non si capisce niente. So solo che resto un potenziale pericolo per gli altri e che una soluzione la devono trovare”.
A cura di Simone Gorla
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"La mia storia è paradossale, sembra fantascienza, ma tutto vero". Due mesi di malattia, otto tamponi tutti positivi, decine di chiamate al 112, agli ospedali, alle Ats e ai medici per capire cosa fare. È l'incredibile odissea di Cesare Di Feo, impiegato 24enne di Soresina (Cremona) a pochi chilometri dell'epicentro del focolaio lodigiano del coronavirus. Dall'inizio dell'emergenza suo padre si è ammalato e ha perso la nonna, portata via dal covid in poche ore. Dopo otto settimane ancora non si vede la fine del tunnel. "Mi ha appena chiamato l'Ats", racconta Cesare a Fanpage.it, "mi hanno detto di decidere con il medico di base se devo fare un nuovo tampone o no. Non si capisce più niente. So solo che resto un potenziale pericolo per gli altri e che una soluzione la devono trovare. Dicono che fanno del loro meglio? Non è abbastanza".

"Tutto è iniziato quando mio papà ha avuto i primi sintomi". Sono i primi giorni dell’emergenza, poco dopo la scoperta del paziente 1 di Codogno. "Ha cominciato ad avere la febbre alta, oltre 39 e mezzo. Dopo molte telefonate per capire cosa fare, ci hanno detto di accompagnarlo in ospedale. Lo ha portato mio fratello in macchina e dopo una lunga attesa è stato ricoverato il 26 febbraio. L'esito del suo tampone è arrivato il 28 marzo", ricorda Cesare, che con la madre e il fratello Christian si è messo in isolamento da subito pur non avendo ricevuto, in un primo momento, nessuna indicazione.

Presto anche Cesare accusa i primi sintomi. Febbre, calo del gusto e dell'olfatto, tosse secca, affaticamento. Inizia così una nuova lotta con il 112 e i numeri verdi regionali: "Ho segnalato i miei sintomi e spiegato che mio padre era ricoverato – ricorda -. L'operatore del 112 ha risposto che si occupava solo delle ambulanze. Dal numero verde ci hanno detto di chiamare Ats. Ma anche Ats ci ha rimbalzato, dicendo di prenotare il tampone al numero verde. Un giro dell'oca assurdo! Capivamo che erano i primi giorni di emergenza e la situazione era difficile, ma così è troppo". Finalmente Cesare riesce a ottenere il tampone, ma per farlo deve andare in ospedale con mezzi propri. "Mi ha accompagnato in auto mia mamma, che è un'ex paziente oncologica a rischio". Per avere l'esito del test ci vogliono 9 giorni, trascorsi nel silenzio assoluto. "Non avevo nessuna informazione, pensavo l'avessero perso".

Proprio l'ultimo giorno di quarantena arriva il referto: positivo. "Il mio medico di base aveva il coronavirus. Il sostituto mi ha dato un antibiotico e passate due settimane ho dovuto fare i due tamponi di controllo", spiega Cesare. Vengono effettuati il 17 e 18 marzo e sono ancora positivi: il calvario continua. Ancora attesa, altre telefonate alle autorità sanitarie. Il quarto tampone di controllo è fissato il 26 di marzo e di nuovo è confermata la positività.

Si arriva ai tamponi numero cinque e sei, il 6 e il 9 di aprile. Questa volta i risultati non arrivano proprio. "Intanto aspettavo, non potevo lavorare da casa e quindi restavo in malattia anche se non avevo più sintomi. Ho continuato a chiamare, persino a Pasqua e Pasquetta, ma all'Ats non rispondevano, erano in vacanza". Il giorno dopo arriva il risultato. Ancora positivo. "A quel punto, stremato, ho ripreso a combattere tra gli uffici dell'Ats che mi rimpallavano da una parte all'altra. Ognuno aveva un'idea diversa su cosa fare".

Il settimo e l'ottavo tampone sono il 21 e 22 aprile. Anche questi ultimi due erano postivi. Cesare è incredulo: "Nessuno mi sa spiegare come è possibile. Ognuno ha un'opinione, ma non ci sono risposte certe. Io mi sono rimesso nelle mani del medico, che sta andando per tentativi: eparina, farmaci reumatoidi e antimalarici. Questi medicinali hanno dato beneficio nei casi gravi in ospedale, ma io non ho sintomi. Mi preoccupano questi dosaggi così alti, chissà che effetto avranno".

Quella di Cesare non è purtroppo un'esperienza unica. A Cremona il picco dei positivi è stato raggiunto il 21 marzo con un totale di 6.557 persone contagiate. Al 29 aprile, il bilancio era sceso a 2.091, un dato ancora molto alto. "È mancata organizzazione della rete medica territoriale, c'è stata totale assenza dei servizi di servizio assistenza domiciliare, con le Usca implementate in modo tardivo", commenta il consigliere regionale Marco Degli Angeli, "centinaia di famiglie e cittadini sono stati lasciati soli e in balia degli eventi".

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