Il flop dell’ospedale in Fiera a Milano, l’ultimo smacco al mito della sanità lombarda
Da giorni ormai non si fa che parlare dell'ospedale in Fiera a Milano e di quel flop che ha rappresentato la sua realizzazione in piena emergenza coronavirus: l'esiguo numero di pazienti ricoverati (ad oggi sarebbero solo 10) a più di due settimane dall'inaugurazione ha posto un grande punto di domanda dinanzi all'investimento dei circa 21 milioni di euro, frutto di donazioni di privati. Quei soldi potevano essere spesi diversamente?
A gestire la raccolta Fondazione di Comunità Milano che ha dato vita al Fondo Fondazione Fiera Milano: le donazioni sono giunte da privati, grandi aziende, multinazionali e nomi storici dell’imprenditoria milanese, e comprendono anche quelle dei Silvio Berlusconi (che ha donato 10 milioni di euro) e di Enel (che ha donato 1,5 milioni). Ad oggi non è chiaro quale sia stato il costo effettivo dell'ospedale in Fiera, se i 21 milioni siano stati sufficienti a coprire le spese per la sua realizzazione o se regione Lombardia abbia contribuito in qualche modo: il presidente di Fondazione Fiera Milano Enrico Pazzali ha parlato di un costo iniziale di circa 10 milioni a cui si è aggiunto il costo delle apparecchiature elettroniche rientrato attraverso ulteriori donazioni, mentre il governatore Fontana ha spiegato che il costo è stato coperto interamente dalle donazioni.
Soldi che di fatto potevano essere investiti nel potenziamento della sorveglianza territoriale, nell'implementazione del numero di tamponi, nell'acquisto di dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario e soprattutto nel supporto agli ospedali lombardi in difficoltà. O, come hanno da sempre sostenuto a gran voce la maggior parte dei medici, per ampliare strutture ospedaliere già esistenti. La Regione ha invece scelto di puntare tutto su un hub che rappresentasse l'eccellenza lombarda, quella del modello Formigoni e delle grandi strutture da far invidia agli altri paesi e che potesse dimostrare le capacità di sopravvivenza di una regione in quel momento messa in ginocchio da una epidemia dai contorni non ancora tracciabili: l'ospedale in Fiera doveva essere l'esempio di quell'eccellenza e invece è stata la rappresentazione del suo fallimento.
In un recente studio americano un gruppo di ricercatori ha in maniera provocatoria scritto che la Lombardia ha scambiato la pandemia di Covid-19 per una emergenza di terapie intensive. La causa è da ricercare nella mancanza di un team di esperti che potesse dettare le linee guide di una strategia di azione non solo a breve ma soprattutto a lungo termine. Intanto sono venute a galla le falle nella gestione dell'emergenza sanitaria che non sono quelle di oggi ma quelle del modello lombardo i cui fallimenti passati evidentemente non sono stati abbastanza: quel modello lombardo che vive di eccellenze nei suoi ospedali ma che deve fare i conti con la mancanza di presidi territoriali, di piccoli ospedali e di assistenza domiciliare. Non è un caso che i pronto soccorso degli ospedali della Lombardia siano tra i più affollati del Paese.
E ora cosa ne sarà del polo ospedale in Fiera una volta terminata la pandemia? È facile pensare che lo stesso ente Fiera abbia intenzione di smantellare la struttura già il prossimo anno per riappropriarsi degli spazi di sua proprietà in modo da rilanciarli per quando l'economia riuscirà a rivedere la luce. E cosa sarà rimasto della beneficenza dei lombardi? "Questo ospedale sarà il simbolo della battaglia vinta sul coronavirus, sarà il simbolo della ripresa della Regione", esclamava a gran voce Fontana lo scorso 31 marzo alla presentazione ufficiale dell'ospedale.