Coronavirus, ecco perché Milano si deve fermare. Per il bene di tutti
di Chiara Ammendola e Simone Gorla
Milano deve ripartire subito, ricominciare a lavorare e produrre a pieno ritmo, riempire ristoranti, negozi e musei. O forse no. L'emergenza coronavirus può essere l'occasione per il capoluogo lombardo di ripensare il suo modello, i suoi ritmi e una visione del suo futuro basata solo sulla velocità e l'efficienza.
Negli ultimi dieci giorni i milanesi e i lombardi si sono divisi in due partiti che hanno posizioni apparentemente inconciliabili. Da una parte ci sono coloro che credono nella necessità di seguire in maniera rigorosa le indicazioni delle istituzioni sanitarie, misure stringenti per ridurre la socialità e bloccare la diffusione del virus. Tra questi c'è il governatore Attilio Fontana, da subito molto netto nell'indicare i sacrifici da fare in nome della salute pubblica.
Dall'altra c'è l'anima produttiva della città, che guarda al sindaco Sala, da subito un po' insofferente nei confronti delle rigide misure imposte. Questa seconda visione è sintetizzata nello spot "Milano non si ferma" lanciato dal primo cittadino sui suoi canali social. Sala non ha mai negato l'importanza delle disposizioni sanitarie che, ha detto, "non si discutono, si seguono". Allo stesso tempo però ha ribadito davanti al consiglio comunale che "non possiamo mettere completamente tra parentesi la nostra realtà lavorativa e produttiva per settimane senza rischiare di esporci a conseguenze che potrebbero essere altrettanto gravi".
La posizione del sindaco di Milano ha provocato un po' di irritazione a Palazzo Lombardia, dove viene fatto notare che, nel pieno dell'emergenza, Sala si è concentrato più sull'esaltazione della Milano aperta che sui residenti della zona rossa, istituita anche perché il contagio non raggiunga Milano, cui non è andato nemmeno un ringraziamento. In fondo, dicono da Palazzo Lombardia, quelle 50mila persone sono state messe in isolamento proprio per proteggere Milano da un contagio che rischierebbe di mandare al collasso il sistema sanitario regionale.
In questi giorni i milanesi si chiedono chi abbia ragione. Il sindaco che invoca misure per non mettere in ginocchio la locomotiva d'Italia? O il governatore che si mette in auto quarantena e invita alla massima prudenza, spiegando che un'epidemia fuori controllo metterebbe in crisi il nostro sistema sanitario? Entrambe le visioni hanno argomenti solidi. Ha ottime ragioni chi mette in guardia contro il rischio che il danno economico a lungo termine, soprattutto se dovuto a reazioni eccessive e irrazionali, potrebbe essere enorme. Non è un problema solo di Milano: lo conferma l'andamento dei mercati di tutto il mondo, da giorni in caduta libera.
Ma in questa fase nel capoluogo lombardo occorre essere innanzitutto molto prudenti. Il numero dei contagiati cresce in maniera esponenziale. Le cifre ancora abbastanza contenute relativi a città e hinterland non devono trarre in inganno. Ora il maggior timore è che nella metropoli possa partire un nuovo focolaio. "Per la città di Milano facciamo gli scongiuri, ma occorre stare estremamente attenti, identificare subito i focolai e circoscriverli", ha avvertito Massimo Galli, primario infettivologo dell'ospedale Sacco. In una situazione del genere, occorre ripensare le priorità. Anche prima dell'emergenza sanitaria si parlava di una metropoli che doveva cambiare modello e ritmo, immaginar un futuro basato anche sul benessere delle persone, sull'ambiente, sul welfare. Se vuole essere la città di tutti, Milano deve sapersi anche fermare, rallentare, ritrovare il fondamentale aspetto umano della vita e non lasciare indietro i fragili, gli anziani, i malati e gli emarginati. Si può essere caput mundi anche senza avere l'ossessione di esserlo.