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Caro Roberto Maroni, da adottato ti scrivo: vergognati

Caro Maroni, ho letto del suo provvedimento che distingue tra figli naturali e figli adottivi. E allora, poiché sono stato adottato e scrivo per lavoro non posso non scriverle. Da adottato.
A cura di Giulio Cavalli
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Caro Roberto Maroni,

ho letto la sua ultima sortita: vorrebbe escludere le famiglie di bambini adottati dal suo provvedimento che distribuisce un bonus economico alle famiglie che hanno figli. Ho letto anche le sue prime risposte a chi sommessamente le ha fatto notare che la sua decisione risulta piuttosto sconveniente e antipatica nella distinzione tra figli "naturali" e adottivi: secondo lei un'adozione non è misurabile come "natalità". Dice. Secondo lei. E allora, poiché sono stato adottato e scrivo per lavoro non posso non scriverle. Da adottato.

Mio padre e mia madre hanno avuto la certezza che non avrebbero potuto avere figli molto presto. Erano sposati da poco ed erano gli anni in cui non "riuscire" ad avere figli era qualcosa di cui vergognarsi un poco, appena appena, da dire sotto voce. Pensi, caro Maroni, che ancora oggi difficilmente potrebbe sapere dai miei genitori, ormai piuttosto anziani, quale dei due abbia veramente la disfunzione: per amore anche quella se la sono divisa per due.

Mio padre era operaio in una centrale termoelettrica della STEI, come si chiamava l'Enel prima di essere Enel. Era uno dei pochi che aveva studiato, mio padre, e per quelli del suo paese era un "marziano" che era diventato un "quasi milanese". Ah, caro Maroni: mio padre è un immigrato. Cresciuto nel cuore della Valsugana, tra Vicenza e Trento, si è trasferito in Lombardia per lavoro. Ah, non solo: si è portata pure la moglie immigrata, veneta anche lei. Uno scempio. Hanno "occupato" una casetta lombarda e sicuramente avranno sottratto lavoro ad uno di voi.

Quando hanno deciso di provare ad avere un figlio in adozione, che all'inizio ha sempre un po' il sapore di una sconfitta, hanno aspettato per mesi che arrivasse una risposta. Mica positiva: no, giorni e settimane e mesi in cui mi dicono che mia madre (quella adottiva, per lei che ne fa una differenza) ha voluto uscire di casa solo quando strettamente necessario per non allontanarsi dal telefono. Io non so le forme che potrebbe avere l'attesa ma mia madre attaccata al telefono io me la immagino a forma di un'attesa. Una cosa così.

Quando hanno detto ai miei genitori che forse c'era un bambino adottabile, che ero io, i miei genitori hanno creduto che finalmente fosse arrivato il momento. Si sbagliavano: semplicemente cominciava il periodo di osservazione in cui le istituzioni (quelle di cui anche lei oggi si ritrova rappresentante, per dire) dovevano decidere se i miei genitori fosse genitori affidabili, capaci, degni. Perché con le adozioni, caro Maroni, funziona così: se vuoi adottare un bambino devi accettare che vengano a prenderti anche le misure del cuore. Quando mi hanno visitato per la prima volta, all'orfanotrofio di viale Piceno, nella sua Milano, è stato per qualche decina di minuti. «Piano, piano», le hanno detto. Come se partorisse un bambino un po' alla volta. E ogni volta tornando a casa dopo averlo rificcato dentro. Una cosa così.

Poi sono stato dato in affido. Mica adottato. In affido. In prova. Una cosa come "soddisfatti o rimborsati", una cosa così. Solo che lì, se la prova fallisce, non ti rimborsa nessuno. E poi mi hanno adottato. Sono passati anni. E ora sono qui. E leggo le sue parole sulla natalità che non esiste senza puzza di placenta.

Faccia una cosa, Maroni, venga lei a casa dei miei genitori a spiegarglielo. Che io non trovo mica le parole.

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