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La Lombardia verso le Regionali: tensioni tra Maroni e Salvini e rebus primarie nel Pd

I diversi partiti politici si preparano per le Elezioni regionali lombarde. Tanti i rebus: dall’accorpamento con le Politiche per l’Election day ai nodi da sciogliere soprattutto nel Pd, alle prese con una difficile scelta: meglio un candidato calato dall’alto come Giorgio Gori o affidarsi alle Primarie?
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"Election day" sembra essere la parola chiave per quanto riguarda le prossime elezioni regionali in Lombardia. Ma quale election day? Le ipotesi sono due. La prima, ormai meno probabile: unire elezioni regionali e referendum per l’autonomia il 22 ottobre. La seconda: aspettare la fine della legislatura nazionale e optare per la ‘combo’ Politiche più Regionali in primavera. Dopo aver spinto sull’acceleratore nei primi mesi dell’anno, con l’idea di cavalcare l’autonomia per riconfermarsi alla Regione, il governatore della Lombardia Roberto Maroni adesso frena e ripete come un mantra che la data giusta è quella prevista dalla scadenza naturale: la primavera del 2018.

Va da sé che, se per qualche tempo gli si è sempre sentito ricordare quanto fosse urgente una caduta del governo a maggioranza Pd (in accordo col segretario Matteo Salvini), la posizione di Bobo risulta adesso molto più ammorbidita.

A pesare sui ragionamenti del governatore c'è poi la questione processo: dopo l’ennesimo rinvio a settembre, preceduto dagli impedimenti per motivi di salute da parte dell’avvocato difensore Domenico Ajello (un mal di schiena molto prolungato) prima o poi i nodi dell’inchiesta per le facilitazioni e i viaggi all’estero di avrebbero beneficiato due sue collaboratrici, verrano al pettine e arriveranno davanti al giudizio della corte. E la permanenza a Palazzo Lombardia, è evidente, è appesa anche all’esito di questo processo.

In una riunione di maggioranza avvenuta in questi giorni a porte chiuse il presidente avrebbe "vuotato il sacco". I vantaggi dell’andare ad elezioni insieme al referendum per l’autonomia sarebbero soltanto elettorali. Maroni ha praticamente legato il suo destino alla buona riuscita di questa consultazione, descrivendola come un mezzo per disancorare la Lombardia, motore economico del Paese, dalla zavorra di altre regioni più lente. In realtà il referendum – se prevarrà il sì – non sarà che un'incoronazione politica del lavoro fatto nei cinque anni di legislatura, e darà al presidente che verrà la forza per esigere da Roma maggiori prerogative. Quali? Non è dato sapere, almeno nel quesito referendario.

Tensioni tra Maroni e Salvini nella Lega

La questione però è prima di tutto politica. Matteo Salvini e Roberto Maroni sono due binari paralleli: il tracciato è quello della Lega Nord, ma soprattutto ultimamente le due linee d’azione e di pensiero non si incontrano mai. Ad esempio, sulla maggioranza di governo in Lombardia. Per il momento, l’alleanza che tiene al Pirellone è quella che tiene legata al Carroccio l’area popolare centrista, che gravita soprattutto intorno a Maurizio Lupi. “Ma ci sono alcuni passaggi parlamentari interessanti, ad esempio il come voteranno sullo ius soli” ha avvertito Salvini qualche giorno fa. Lo ha fatto a margine di una riunione con i suoi amministratori in un albergo alla periferia di Milano, convocati per serrare le fila in vista del referendum: “È chiaro che se voti per regalare cittadinanza a Roma poi non puoi pretendere di venire a governare con la Lega in Lombardia, il voto regionale è un voto anche politico". ha poi proseguito. Vade retro qualsiasi alleanza con partiti in qualche modo legati al ministro degli Esteri, Angelino Alfano, ha precisato Salvini: “È chiaro che il simbolo di Alfano sulle schede elettorali nazionali non ci sarà”. A chi gli ha chiesto se l’area popolare di ispirazione cattolica – e sempre radicatissima in Regione per la presenza di gruppi forti come Comunione e Liberazione – sia decisiva in Lombardia, il leader della Lega ha risposto: “Tutti sono importanti ma nessuno è necessario. Non avevamo paura quando prendevamo il 3% figuriamoci adesso”. Poi un diplomatico: “Io non impongo niente a nessuno". Ma chi vuole intendere, intenda.

L'area cattolica del Pd spinge per le primarie: Gori candidato sgradito

Le tensioni non risparmiano nemmeno il Pd. È l’area cattolica, anche nel caso della piattaforma dem, a spingere per la soluzione meno gradita ai vertici. In una lettera firmata dai politici d’area, tutti provenienti dalle varie anime dell’associazionismo che ruota intorno alla Chiesa Ambrosiana (dalle Acli alla Caritas, dagli oratori all’Azione cattolica fino all’Agesci, gli scout cattolici), sono state chieste esplicitamente nuove primarie per scegliere il candidato alla presidenza della Lombardia. La consultazione degli iscritti sarebbe uno “strumento valido anche se non scontato” per “recuperare una cinghia di trasmissione tra politica e cittadini”.

Al di là del politichese, gli onorevoli, i consiglieri ed assessori cattodem lombardi, vorrebbero un altro candidato e preferirebbero non fosse calato dall’alto. Insomma a Giorgio Gori preferirebbero un candidato istituzionale, milanese, e ben radicato sul territorio. Tirando ad indovinare potrebbe essere uno come Fabio Pizzul, che all’ultima tornata di regionali fece il pieno di voti arrivando primo per preferenze. Dal canto suo il sindaco di Bergamo si è detto pronto, nonostante la luna di miele con il leader del Pd Matteo Renzi sia finita – si dice – da un pezzo. Sa di essere conosciuto, mediatamente ben esposto – non ha alcun problema se lo si definisce “marito di” riferendosi alla moglie e conduttrice Tv, Cristina Parodi – e ha incassato l’appoggio del ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina. A Milano per il Forum 2020 dei circoli, in qualità di vicesegretario del Pd e bergamasco doc si è messo a disposizione per una squadra “con Giorgio Capitano”.

Volendo guardare nelle pieghe del partito, non sarebbe peregrina l’ipotesi di un Alessandro Alfieri candidato presidente a Palazzo Lombardia: in fondo è stato segretario regionale per un buon numero di anni e ha affrontato a testa alta la batosta delle recenti amministrative. Nemmeno a Matteo Renzi dispiacerebbe una figura come la sua, ma da esperto comunicatore immaginerà anche lui che il gap da recuperare è molto ampio rispetto alla posizione da cui parte il sindaco bergamasco, in termini di narrazione politica. E poi la storia dell’imprenditore che “scende in campo” – Gori è stato patron della fortunata casa di produzione televisiva Magnolia – negli ultimi 25 anni, pare, ha vinto di più di quella del funzionario di partito passato a mansioni esecutive.

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